LA MERCE è DENARO

L’argomentazione che segue tratta specificamente dell’Italia ma vale per tutto il mondo occidentale, pur con significative differenze (secondarie) tra un Paese e l’altro.

Utilizziamo, per comodità, la parola occidentale per designare la realtà dei Paesi di ciò che una volta si chiamava “primo mondo” (una gran parte dell’Unione Europea, gli Stati Uniti d’America, il Canada, il Giappone, l’Australia, la Nuova Zelanda), i quali tutti, in maniera evidente o latente, ed in misura minore o maggiore, sono preda di una crisi che ne corrode le forze (e la democrazia).

In economia è dottrina ufficiale – insegnata come positivo dato di fatto nelle Università – che il denaro è merce, e la merce è denaro; affermazione la quale, a quel che pare, è condivisa universalmente.

La prima metà, “il denaro è merce”, significa evidentemente che il denaro stesso è in grado di fungere da merce, e pertanto può essere comprato o venduto.

Esso può essere comprato o venduto in cambio di merci ordinarie, e questa è la comune attività commerciale che generalmente si osserva dal punto di vista diametralmente opposto e si identifica con l’acquisto o la vendita di merci (chi acquista una merce vende il suo denaro in cambio di quella merce, chi vende la merce acquista il denaro).

Oppure il denaro può essere comprato o venduto di per sé stesso: come nei casi particolari del cambio valutario (ad esempio vendere o comprare euro contro dollari) oppure del prestito ad interessi (quando una certa somma di denaro è venduta in cambio di una maggiore somma di denaro da corrispondersi in futuro).

Che la merce sia denaro, può ugualmente accadere in due modi: attraverso la vendita ordinaria, con la quale si scambia la merce con la corrispondente quantità di denaro, oppure attraverso uno scambio diretto di merce contro merce, che corrisponde all’antico concetto del baratto.

In una Società moderna il baratto capillare non è tecnicamente possibile, per infinite motivazioni: ma al livello macroscopico tutt’intera l’economia è basata sul baratto di merci.

Possiamo osservare, per esempio, che tutti i dipendenti delle imprese italiane, guardati come un soggetto unico, barattano con l’ambiente economico circostante il loro lavoro contro la massa di beni e servizi da essi effettivamente acquistati, il cui valore di mercato complessivo è pari alla somma dei loro salari.

Affinché lo scambio capillare possa farsi in maniera praticamente applicabile, e relativamente semplice, è stata necessaria sin dall’antichità l’interposizione del denaro il quale funge, in sostanza, da catalizzatore; ma ciò non toglie che la natura reale dello scambio sia di merci contro merci.

L’insegnamento che dobbiamo trarre è che se disponiamo da una parte di una gran massa di merci e dall’altra di una massa equivalente di lavoro, e tali masse sono congruenti per qualità, il baratto è sempre possibile: ma, per essere praticamente fattibile, occorre che sia presente un catalizzatore.

Queste considerazioni ci saranno utili per la trattazione seguente.

Supponiamo dunque che lo Stato italiano metta in circolazione (in deficit) 60 miliardi di euro (il 3% del PIL) per rafforzare l’economia e supponiamo anche che il risparmio e la tesaurizzazione (che nelle nostre condizioni sono fattori potenzialmente negativi) non giungano al punto di nuocere, soprattutto in quanto l’apparato finanziario-creditizio le ri-canalizza verso la spesa.

Allora – supponendo realisticamente la completa assenza di moltiplicatori – le imprese copriranno la maggiore domanda (60 miliardi) producendo o importando merci in più per lo stesso valore e subiranno un incremento dei costi, poniamo, per 2 miliardi, pari al costo della quantità aggiuntiva di lavoro necessaria per la produzione supplementare (gli importatori avranno costi relativi maggiori degli altri, ma qui non possiamo trattare tutto accuratamente).

In ipotesi realistiche una semplice analisi ci informa che i prezzi medi delle merci prese in considerazione aumenteranno, esattamente di tanto quanto occorre per coprire i 2 miliardi di costi incrementali, mentre i 60 miliardi affluiranno completamente nei profitti delle imprese interessate (approfondimento: Teorema del Disavanzo).

Queste, poiché la loro capacità produttiva è troppo grande per essere saturata con un incremento di produzione di tale grandezza, non potranno investire internamente i profitti conseguiti e quindi, fatta astrazione dai consumi di lusso, li rovesceranno nel circuito finanziario, direttamente o con qualche mediazione (del genere dell’acquisto di immobili o in genere di beni di investimento).

Il costo esiguo della produzione incrementale, cioè proprio la potenza produttiva disponibile, costituisce la palla al piede di questa metodologia: il denaro immesso dallo Stato per la massima parte non circola, ed induce sviluppo per soli 2 miliardi su 60 (o meglio 62).

Come possiamo sfruttare questo fatto gravemente negativo a nostro vantaggio?

La storia della Scienza mostra che spesso, se si invertono i termini del problema, ciò che era un punto di debolezza diviene il nucleo della forza.

Un’ipotesi matematicamente corretta è la seguente: possiamo evitare del tutto di mettere in circolazione i 60 miliardi, e conseguentemente deprecare il deficit ed il conseguente aumento del debito, senza perdere la produzione aggiuntiva?

Possiamo: dobbiamo semplicemente ordinare alle imprese di produrre egualmente la massa di merci delle quali si è parlato e rimborsare loro solamente i costi, ovvero 2 miliardi.

Ciò non infligge alle imprese interessate alcun danno: soltanto non permette loro di incamerare un profitto che certamente appare loro sommamente appetibile, ma non appartiene al mercato in quanto è soltanto una filiazione dell’intervento in deficit.

Purtroppo il trasferimento verso i profitti di enormi masse di denaro generate mediante deficit non può essere perseguito a lungo, perché non sblocca la produzione ma fa crollare l’intero Sistema occidentale (italiano e non italiano).

Nella configurazione appena descritta lo Stato non immette denaro nel mercato e non crea debito, il Bilancio è in pareggio, le imprese non realizzano i profitti parassitari legati ad un’operazione estranea alla dinamica naturale del mercato.

Ma per il resto la produzione cresce ugualmente e l’effetto dell’intervento rimane pressoché esattamente identico, e la competitività verso l’Estero, in entrata ed in uscita, rimane invariata.

Quella appena delineata, con tutte le complessità teoriche e pratiche che si trascina dietro, e con la tecnologia indispensabile, è la “pompa premente” della quale si è parlato all’inizio di questa trattazione.

Il suo effetto è di espandere la produzione, ossia produrre una crescita reale del PIL, non a causa della pressione interna propria del Capitalismo, che non funziona più, ma di una pressione tecnologica che si può spingere (se si sanno costruire tubi sufficientemente solidi) a qualsiasi livello si possa desiderare.

I consumatori conservano tutto il loro denaro, e possono spenderlo come prima a fronte delle merci prodotte (quali e quante prima); rimane soltanto da allocare la produzione aggiuntiva, che a causa della mancata immissione dei 60 miliardi risulta invendibile.

Non può essere diversamente, perché se fosse vendibile il mercato l’avrebbe prodotta da sé.

Dobbiamo ricorrere ai principi dell’economia, e vedere questa massa di merci non già come uno stock da vendere, ma come una moneta da spendere.

È fondamentale osservare che l’intervento descritto non patisce più la limitazione del 3% del PIL, e neanche quella naturale del pareggio di Bilancio, che lo ridurrebbe a zero.

Esso non richiede alcun disavanzo, o al limite lo richiede soltanto per 2 miliardi, e può essere compiuto su qualsiasi scala compatibile con le risorse reali ed organizzative del Sistema, senza alcun coinvolgimento della solvibilità dello Stato.

Se noi abbiamo sufficiente coraggio, possiamo ampliare la scala dell’intervento, e chiedere (verbi grazia) produzione aggiuntiva per 300 miliardi piuttosto che per 60, il che produrrà presumibilmente costi per 20 o 30 miliardi, e stavolta i moltiplicatori ci saranno.

Non appena tale quantità di merce è stata prodotta, subito noi possiamo rivendicare una crescita reale del 15% del PIL; naturalmente deve essere resa utilizzabile, perché se andasse semplicemente distrutta la crescita sarebbe vanificata.

Contrariamente ai luoghi comuni, i quali ripetono meccanicamente che la crescita non si fa per decreto, abbiamo posto in atto esattamente una crescita operata per decreto.

È vero che ciò non è sempre possibile, e richiede condizioni particolari e metodologie raffinate, ma non è vero che sia sempre impossibile: anzi nelle nostre condizioni è sommamente agevole e quasi spontanea.

Da questo punto in avanti il nostro scopo sarà di utilizzare senza sprechi – né fisici né amministrativi – la massa di merci postaci a disposizione dalla crescita che abbiamo forzato.

Si deve immaginare che i 300 miliardi di euro di merce invendibile siano convogliati, come si diceva una volta, ad un ammasso: ma, poiché siamo nel XXI secolo, e la produzione è composta per grandissima parte di servizi, un tale ammasso sarà puramente virtuale e non avrà né costi di gestione né perdite di magazzinaggio.

Le merci invendibili sono mescolate alle altre nelle ordinarie posizioni della loro circolazione (scaffali dei supermercati, magazzini, fonti di servizi) e non sono distinguibili dalle altre singolarmente, ma soltanto per quantità.

L’autorità statale dovrà decidere come spendere questa enorme massa di merci, cioè come barattarla e con che cosa.

Ovviamente anche qui sarà indispensabile interporre il denaro, ma non sarà il medesimo denaro che circola ordinariamente nel mercato, che molto opportunamente i trattati non permettono di stampare e forse nemmeno di sfiorare.

Sarà una forma speciale di denaro (che chiamiamo denaro sintetico) il quale avrà comunque la medesima denominazione ed esattamente lo stesso potere d’acquisto della moneta ordinaria (da noi l’euro), e potrà comprare soltanto le merci dell’ammasso, ai prezzi di mercato.

Provvisoriamente, possiamo chiamarlo euro digitale 2, EUR-D2.

Il successo di tutto ciò, pensato per generare livelli di benessere quasi impensabili nelle prospettive di stagnazione cui siamo abituati, dipende appunto dall’efficiente circolazione del denaro sintetico e dal corretto funzionamento dell’ammasso virtuale.

Il denaro sintetico deve circolare sotto pressione e dunque in un circuito a tenuta stagna, sotto regole che non possono essere semplici perché è necessario ovviare ad una miriade di piccole difficoltà; ma coloro che lo utilizzano non vengono mai a contatto con la complessità sottostante e possono considerarlo identico al denaro normale, salvo il suo carattere puramente digitale.

Ogni concetto semplice, quando deve essere attuato concretamente su larga scala, diviene tecnologico e spesso deve raffinarsi; l’attuazione fa insorgere sul suo stesso percorso molti ostacoli, piccoli e medi.

Ostacoli dovuti in parte ad esigenze oggettive degli uomini, le quali creano difficoltà e complicazioni al funzionamento della macchina che si vuole allestire e tuttavia non possono essere ignorate tout court o, peggio, schiacciate.

E dovuti, in parte non piccola, a potenziali comportamenti scorretti connaturati all’indole degli uomini, i quali comportamenti debbono essere piuttosto prevenuti e resi impossibili per via tecnologica, che repressi.

Nelle prossime pagine dovremo cercare come spendere, e possibilmente mettere a frutto, la massa di 300 miliardi di EUR-D2 che abbiamo a disposizione, sotto la forma di merci invendibili.

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