UN’IPOTESI DI FISICA NON GALILEIANA
Lo splendore della Fisica contemporanea è così intenso, da
intimidire persino chi volesse esprimere ammirazione e consenso. Molto più resta atterrito colui che è costretto – o crede di
essere costretto – a criticare non una singola equazione o una teoria particolare,
ma il metodo e le fondamenta. La Fisica contemporanea sembra trovare difficoltà nel separare
l’osservato dall’osservatore; parimenti non trova agevole coordinare in una
singola teoria due differenti visioni del mondo, una macroscopica e l’altra
microscopica, nessuna delle quali appare esplicitamente contraddetta da fatti
sperimentali; infine – quali che siano le leggi trovate – esse non sfuggono
ad una generica ma ineliminabile sensazione di gratuità. Ai confini della Fisica, conservano tutto il loro peso molte
obiezioni avanzate nel corso della Storia dai filosofi, tutt’altro che
agevoli da rimuovere, le quali rimangono tuttora insolute: il filone
principale sta nell’eterogeneità tra razionale e reale, cosicché non è chiaro
che cosa manchi alle costruzioni razionali per acquistare l’ambita esistenza. Pertanto non è completamente illecito porre una domanda, con il
rischio che possa essere giudicata peregrina e mal fondata, a proposito del Metodo
Galileiano (al quale metodo, per l’influsso determinante che ha avuto ed ha
sullo sviluppo della conoscenza umana, non è possibile tributare lodi che
siano sufficienti). Ci si può chiedere se esso, per la sua stessa fecondità ed a
causa dello smisurato ampliamento del suo raggio d’azione, non abbia
raggiunto i confini del suo potere. Noi vediamo ciò che guardiamo e come guardiamo: se guardiamo
attraverso un acceleratore vediamo l’acceleratore, se attraverso un
telescopio vediamo il telescopio. Ma ci sono strumenti di osservazione ben più terribili
dell’acceleratore e del telescopio: se guardiamo i fenomeni con il mezzo
dell’analisi infinitesimale noi vediamo principalmente l’analisi
infinitesimale, la quale dovremmo usare con somma cautela, soprattutto quando
la sua stessa architettura è in contrasto o addirittura in contraddizione con
le leggi fisiche che ipotizziamo e vogliamo dimostrare; ma una piccola nota
come questa non permette di sviluppare un simile discorso. Se guardiamo attraverso un buco di serratura vediamo,
essenzialmente, un buco di serratura: dal quale, ad esempio, le persone
possono “sparire” improvvisamente (in tutto o in parte) per poi tornare da
un’altra direzione senza che ciò sia, in senso proprio, una legge fisica. Se oltre il buco c’è uno specchio curvo dalla superficie
irregolarmente ondulata, vediamo fenomeni ancora meno comprensibili, seppure
pienamente reali, per i quali possiamo incontrare difficoltà enormi e persino
insuperabili nel trovare una legge. Un esempio – che deve essere inteso come non più che un esempio
– potrà essere utile. Supponiamo di trovarci in una città con viali lunghissimi: chi
guarda ad occhio nudo vede che, col crescere della distanza, le persone e gli
oggetti divengono sempre più piccoli e concentrati, cosicché sarebbe portato
a concludere che tutti i viali, in qualsiasi direzione, conducono ad un buco
nero. La conoscenza geometrica, però, ci insegna quali sono i rapporti
tra una certa distanza e un certo angolo e lunghezza, superficie, volume a quella
distanza, cosicché concludiamo che ciò che accade in fondo alla strada non è
troppo diverso da ciò che accade intorno a noi e, con l’opportuna
interpretazione, la cosa sarebbe confermata dalle più accurate osservazioni
sperimentali. Ma se lo spaziotempo interposto fosse, in via d’ipotesi,
alquanto più euclideo di quanto ci aspettiamo, o meglio se il telescopio fosse
meno euclideo dello spaziotempo, arriveremmo alla conclusione che la strada
si restringe davvero, fino a precipitare in una singolarità. Ma – questa è un’opinione per momento gratuita di chi scrive –
tutte le volte che in Fisica ci imbattiamo in una singolarità, persino se la
misuriamo, vuol dire che la stiamo inventando: ad esempio, se misurassimo gli
angoli per mezzo della loro tangente, troveremmo (e misureremmo) singolarità
inesistenti in corrispondenza ad ogni angolo retto; e la Storia è piena di
molti esempi, quali il muro del suono, la legge della Gravitazione
Universale, o anche l’attrazione coulombiana. Quando operiamo con rigore scientifico – attraverso qualsivoglia
strumento – non vediamo illusioni o allucinazioni, ma autentici fenomeni
(soggettivi) i quali sono però “ritagli” e parzializzazioni del cosmo: le
leggi che li reggono sono, innanzi tutto e forse soltanto, leggi dello strumento. Le osservazioni che precedono non sono semplici speculazioni
filosofiche (d’altra parte ovvie) ma solidi fatti, carichi di conseguenze
sperimentali; e bisogna comunque saper spiegare perché se guardiamo con un
certo strumento vediamo certe cose governate da certe leggi, e non altre: non
è certamente perché le “cose in sé” siano proprio in quel modo. Nasce l’aspirazione ad una linea di ricerca – queste righe
esprimono più il bisogno che il conseguimento – la quale, fatta salva la
necessità che i fatti concordino con la teoria e che ogni affermazione non
debba contraddire alcuna verifica sperimentale, ci faccia dono tuttavia
dell’affrancamento dall’egemonia (che forse possiamo chiamare tirannia) degli
strumenti. Nel testo che segue accadrà di far uso, soprattutto a scopo di
esempio, di osservazioni tratte dalla Fisica quale la conosciamo, citate come
se fossero vere, in termini di meccanica, chimica, evoluzione
biologica; tuttavia esse non superano il confine dell’esempio che le invoca e
non entrano mai come presupposti – almeno volontariamente – nella corrente
del ragionamento. Per tracciare un percorso che possa condurci con rigore
scientifico ad una Fisica non galileiana dobbiamo, per prima cosa, ritornare
alquanto alle origini. LE ORIGINI DELLA FISICA RAZIONALE
Lo scopo della Fisica razionale, sin dai suoi primi inizi, è la
riduzione all’unità dell’esperienza complessiva del mondo, del quale fa parte
(ma non organicamente, a suo proprio giudizio) lo stesso soggetto che indaga:
esperienza acquisita fondamentalmente – ma non esclusivamente – per via
sensoriale. Storicamente si suol parlare di ricerca dell’arkhé,
problema attorno al quale ci affaccendiamo ancora oggi, dopo aver compiuto
grandissimi progressi grazie, soprattutto, alla rinunzia a molte non
necessarie certezze. L’impossibilità di una soluzione “immediata” fu scoperta, con
mirabile precocità, da Anassimandro, circa un secolo prima di Parmenide e due
di Aristotele: la identificò nella struttura stessa dei soggetti, entità intrinsecamente
molteplici, i quali dividono il mondo in un “interno” ed un “esterno” e
dunque fanno dell’assoluto un relativo, del relativo un assoluto, e del
semplice un molteplice. Nel linguaggio moderno diremmo che ciascun soggetto pone sé
stesso come una partizione dell’apeiron tra interno ed esterno;
la chiameremo, nel seguito, “partizione di Anassimandro”, nella speranza che un
siffatto uso del suo nome non sia del tutto indegno del sommo Filosofo. Occorrerà tornare successivamente su queste intuizioni fondamentali,
trasmesse nebulosamente dalla tradizione, le quali sarà necessario chiarire
meglio in termini moderni: con il porre sé stesso il soggetto separa il mondo,
il quale sarebbe stato assoluto, in due parti (l’interno e l’esterno) le
quali, viste in assoluto, sono relative ed anzi arbitrarie. Ma il soggetto, quando si pone, pone sé stesso come assoluto, e le
sue due parti, viste soggettivamente, sono assolute, almeno se il
soggetto non sa o non può o non vuole modificare la partizione:
cosicché la realtà esterna appare al soggetto come altro da sé,
sostanzialmente dura ed immutabile, per l’appunto assoluta: ed invero
la realtà (interna ed esterna) è assoluta tanto quanto il soggetto è assoluto
relativamente a sé stesso. È davvero mirabile quante indicazioni fondamentali si possano
apprendere da ragionamenti sostanzialmente primitivi. Anassimandro vide nell’originaria (ed apparentemente immotivata)
“separazione dell’indistinto” (la quale rimane tutt’ora la più
incomprensibile tra le tante cose incomprensibili che ci stanno intorno) una
sorta di “peccato originale” degli individui, da “espiare” “nell’ordine del
tempo”: presumibilmente – a suo avviso – attraverso la morte, inevitabile
sottoprodotto del tempo, la quale ricostituisce l’unità che il porsi del
soggetto ha distrutta. La separazione dell’indistinto diede origine alla varietà dei
soggetti, ed alla loro molteplicità (interna ed esterna). Ma i frammenti di Anassimandro sono così esigui, e dubbi, che
tentare di percepirne più oltre il pensiero ci esporrebbe a troppa arbitrarietà. Certamente, come vedremo, è ingenuo, e non è scientificamente
utile, chiedersi “perché” ci troviamo in un mondo irrimediabilmente
molteplice, ed ancor più cercarne l’origine nel “passato”. La parola “perché” sottintende leggi e causalità e la parola
“passato” richiede il tempo, tutti assunti che sono essi stessi figli della
partizione, dei quali dobbiamo fare a meno. L’unificazione pura, fino a giungere al silenzio dell’Essere
Parmenideo, è impossibile per noi, fino a quando esistiamo ed abbiamo
desiderio di conoscere. La sfera “finita” ma “non limitata” di Parmenide e le
meravigliose discussioni del dialogo di Platone non dissipano le nostre
tenebre, ma le fanno più fitte: la molteplicità, prima ancora che nel mondo
osservato, è inerente al soggetto che osserva, nel cui linguaggio –
intrinsecamente molteplice – dovrebbe essere formulata la sintesi;
saggiamente, l’Essere Parmenideo è ineffabile, sebbene se ne parli
moltissimo. È difficile enunciare qualcosa la cui vena più
profonda i presocratici non abbiano anticipato al più alto livello di
grandezza; la filosofia successiva, antica e moderna, che possiamo
personificare in Aristotele, ha sempre tentato di diluire o persino
dimenticare queste gemme, le quali vediamo riaffiorare dal terreno man mano
che diventiamo capaci di riconoscerle. Ed invero quasi tutti i filosofi professionisti (Platone e Kant,
per esempio) tendono ad ignorare i fisiologi presocratici, quelli che gli antichi
chiamavano “Fisici”: sembrano dimenticare che la Filosofia è innanzitutto Fisica,
e come Fisica è nata. Persino le religioni, le quali possono impunemente trascurare la
coerenza e la ragione, si sono sentite costrette ad ammettere a loro
fondamento la molteplicità: o esplicitamente, come forse è più saggio, oppure
(nel monoteismo intransigente) attraverso una sorta di “schizofrenia” della
Divinità. In qualche decina di migliaia di anni la mitografia ha
distillato alcune aspirazioni profonde dell’animo umano, le cui componenti
essenziali sono state filtrate dalla sensibilità collettiva attraverso un
meccanismo sostanzialmente evolutivo e così, coscientemente o inconsciamente,
sono state tramandate. Tra queste primeggia l’aspirazione ad una spiegazione semplice
dell’Universo, sebbene non pura quale l’espressero i primi filosofi e
certamente non altrettanto disinteressata, ma presente e – in rare occasioni
– inusitatamente profonda. Di costoro la scienza fisica può occuparsi tangenzialmente, come
chi sviluppa chimica può osservare (in casi rarissimi) quanto vicino ad un
risultato reale passassero gli antichi alchimisti, spinti da semplice forza
d’intuito, senza percepirlo e senza darsene ragione. Accadrà, in queste pagine, di sfiorare l’argomento, ma assai di
sfuggita e timidamente, quanto basta a mostrare che il fatto non è passato
inosservato: comunque, non pare che ci sia molto da imparare da siffatti
accostamenti, se non che i nostri desideri più grandi siano rimasti sempre i
medesimi. Ma in molti l’aspirazione alla semplicità e la ricerca della
verità erano sovrastate da più forti passioni: gli alchimisti, per il vero,
cercavano l’oro, i mitografi il dominio delle masse, i poeti la bellezza;
così fu lasciato ai filosofi il carico dell’indagine disinteressata. RAZIONALE E REALE
Avendo rinunciato all’unificazione assoluta in un mondo semplice
con un principio unico, lo scopo della Fisica si è ristretto a coniugare il (nostro)
reale ed il (nostro) razionale, l’uno e l’altro molteplici, attraverso la
riduzione al minimo possibile della molteplicità nel secondo. Addirittura, per molti versi, si è sempre tentato di sottomettere
uno dei due – il reale – in guisa che esso obbedisca all’altro: ancor
oggi l’incondizionata obbedienza della materia è la prova regina della
validità di una dottrina fisica. Le più grandi difficoltà – che per ora dobbiamo ignorare – si
incontrano nella determinazione del confine tra razionale e reale, il quale
passa all’interno del pensiero umano ed anzi attraversa a metà, come uno
spartiacque, l’aritmetica: scienza che, come sempre si è saputo, è a
fondamento di ogni cosa. L’aritmetica è un mondo che appare infinitamente più esteso e complesso
del nostro Universo, e può essere intesa in senso stretto (che per il nostro uso
è più che sufficiente) o in senso ampio (dunque con le sue filiazioni
algebriche geometriche ed analitiche). Essa (con l’importante eccezione dell’intuizione spaziale in
geometria) è un mondo senza tempo, spazio, materia, energia, forze, causalità,
campi ed insomma tutte quelle cose che, con qualche licenza, possiamo
chiamare Categorie della Fisica. Pur priva (per sua natura) di tutto ciò, essa può essere divisa
in aritmetica sperimentale, che è qualcosa di molto affine a ciò che
chiamiamo reale, ed aritmetica assiomatica, che assomiglia in qualche
misura al razionale. Tuttavia gli assiomi non sono cause dell’aritmetica, ma
strumenti di osservazione: ad esempio se C=A+B non diremo mai che A o B o la
sommazione A+B siano cause di C. È verosimile che tutti noi, indistintamente, siamo convinti che ad
una qualsiasi persona, dotata ad esempio della possibilità di eseguire le
quattro operazioni, assolutamente non possa accadere di incontrare, quando
esplora l’infinita realtà dei numeri, nessun fatto che sia in
contrasto con alcuno dei teoremi dell’aritmetica assiomatica, non solo quelli
già scoperti e noti a molti, ma anche quelli che non sono ancora stati
scoperti. Sebbene le proposizioni non ancora scoperte possano richiedere
tecniche dimostrative ignote all’osservatore ed a tutti i suoi contemporanei,
delle quali nessuno di loro potrebbe avere alcuna cognizione e persino
sospetto. Da dove nasce questa nostra universale convinzione? Con quale
mezzo, a nostro avviso, l’aritmetica teorica – sovente prima ancora di essere
sviluppata – domina l’aritmetica empirica? Perché – e quanto – l’aritmetica
reale obbedisce all’aritmetica razionale? La domanda appena formulata espone ciò che possiamo chiamare il
problema fondamentale della Metafisica o, per brevità, problema-zero; non ci
saranno altre occasioni, in queste pagine, di far uso di quella parola splendida
ma eccessivamente abusata: e non si è evitato del tutto perché nello
specifico contesto essa è appropriata e necessaria. Qualcuno potrebbe sostenere che la semplice definizione delle
regole empiriche di calcolo individua, implicitamente, gli assiomi
dell’aritmetica e le loro conseguenze: ma, posto che ciò sia vero, la domanda
si trasforma in una sua variante: “che cosa esplicita l’implicito”? Una questione assai simile al problema-zero si pose Kant a
proposito della Fisica: perché la Natura obbedisce alle nostre leggi fisiche?
Ma il contesto puramente aritmetico nel quale abbiamo posto il problema è
impermeabile a tutti gli argomenti che il grande filosofo produsse per
tentare di risolverla, e ciò dimostra che il nucleo della questione è
altrove. Non è possibile venire a capo (in maniera per così dire
“definitiva”) delle questioni della Fisica fino a quando non si sarà data
risposta alla domanda fondamentale (problema-zero) ed a molte altre questioni
secondarie dell’aritmetica, la quale aritmetica presenta difficoltà “fisiche”
forse insuperabili e forse non inferiori a quelle della Fisica stessa. Questa è la ragione per la quale il presente cenno non può
nemmeno dare un solido inizio alla sua metamorfosi in Teoria vera e propria. Per di più la realtà (forse) è una, le teorie possibili sono
molte; e se anche si riuscisse a risolverle in una sola perfettamente
coerente, questa avrebbe al suo interno un gran numero di variabili i cui
valori non sono noti a priori, le cui combinazioni ed indeterminazioni darebbero
luogo ad altrettante versioni compatibili del reale. ARITMETICA
Noi, quando operiamo con i numeri, veniamo a possedere capacità
creative non troppo dissimili da quelle che alcune religioni assegnano alle
divinità, a volte persino maggiori. Possiamo “pensare” oggetti mai pensati (individualmente o
collettivamente) da nessun altro, oppure oggetti più semplici, oppure più
complessi, e scoprire, con una certa sorpresa, che “esistono”, anzi che
“esistevano”: la questione che i numeri esistano indipendentemente dalla
nostra mente, o siano invece una sua costruzione, è importante ma non così
rilevante come potrebbe apparire. Sebbene il significato del verbo “esistere” in senso aritmetico-matematico
sia fondamentale, ciò che segue non dipende dalla particolare modalità nella
quale vorremo intenderlo. Il lettore può fare riferimento, come esempio di atto creativo,
all’aggiunta del numero “i” (unità immaginaria) all’anello dei numeri interi
dell’aritmetica tradizionale; nasce subito una frotta di nuovi numeri, i
cosiddetti interi gaussiani, i quali possono spargere una certa luce su quel
che diciamo. Ci interessa osservare alcuni semplici fatti (risaputi); le
nostre creazioni aritmetiche sono acoriche ed acroniche, e ci appaiono trascendenti
rispetto allo spazio ed al tempo oppure, se vogliamo vederle nel tempo, ci
appaiono preesistenti, per così dire ab aeterno, al nostro atto
creativo; tanto che le attività creative aritmetiche sembrano più simili a
scoperte che ad invenzioni. Le nuove creature non sono sogni, perché possono essere comunicate
ad altri con precisione, ed osservate ed indagate ad libitum da
noi stessi e da costoro; né d’altra parte un sogno nel quale tutto è
contenuto e dal quale non pare lecito svegliarsi può essere trattato a priori
(senza prove) come un’illusione. Né sono creazioni nel senso poetico, perché non possiamo
plasmarle secondo il nostro desiderio o la nostra ispirazione: esse hanno la
più grande capacità di resistere alla nostra volontà; come raccontano i
miti, anche le nostre umili creature mentali hanno una forte inclinazione
alla ribellione. Infine, la creazione aritmetica appare strettamente
irreversibile: una volta che sia stato portato all’esistenza, non sembra
possibile de-creare, ovvero annichilire, un ente aritmetico. Un discorso a parte, che sarà sviluppato a suo luogo, concerne
la ricerca della contingenza nell’aritmetica: se questa parola abbia
significato, quale significato le si possa attribuire, dove conduca il
ragionamento. UNA METAFORA GEOMETRICA
Per momento supponiamo, in via puramente congetturale, che la
realtà e la teoria siano soltanto eterogenee e non nemiche: ossia che la
realtà non sia razionale (nel senso corrente, che chiameremo beta-assiomatico)
ma nemmeno anti-razionale. La motivazione del termine beta-assiomatico ed il suo
significato saranno accennati più avanti; esso non esaurisce tutte le
possibili dottrine fisiche fondate sulla ragione rigorosa, ma comprende tutte
le più importanti a noi note: esse descrivono la realtà empirica come pienamente
contingente e pienamente libera nei suoi accadimenti, eccetto alcuni vincoli,
che si chiamano leggi di Natura, cui questi debbono ubbidire. Nella maggior parte dei casi i vincoli sono riconducibili a
forze meccaniche di attrazione e repulsione, tali e quali all’Amore ed
all’Odio di Empedocle; ma rispetto a quelle speculazioni la Fisica moderna ha
il gran merito del calcolo quantitativo e della verifica sperimentale. Supposto dunque che non sia beta-assiomatica possiamo ipotizzare,
in via di metafora, che la realtà si possa paragonare ad una superficie
sferica e le teorie beta-assiomatiche della Fisica sperimentale siano piani. Nella metafora una teoria fisica coerente (ad esempio la
meccanica newtoniana o la relatività generale) può essere rappresentata con
un piano secante della superficie sferica, prossimo ad una posizione di
tangenza. Il piano riesce a spiegare appropriatamente gli eventi posti nella
stretta prossimità della circonferenza-sezione (perfettamente lungo la linea,
bene ai suoi margini) ed approssimativamente gli eventi contenuti nella
calotta minore. Tutti gli altri punti del piano esprimono eventi possibili nella
teoria che esso esprime ma privi di riscontro nella realtà, come dire che i
punti generici del piano non riescono ad intercettare “l’esistenza”; per
parte loro, i punti della calotta maggiore sono gli eventi fisici che
contraddicono la teoria. Le difficoltà si rafforzano se ipotizziamo un piano tangente,
ossia la spiegazione perfetta di un “intorno” di un singolo evento; qui
vediamo che la semplicità del reale e la semplicità del razionale (beta) non
sono soltanto cose diverse, ma opposte: il punto della sfera partecipa al
contatto come punto isolato, il punto del piano come fuoco
dell’interconnessione di tutti i punti di esso. Ma c’è ancora una terza semplicità, quella cui aspiravano i
primi filosofi. IL DUALISMO INTRINSECO DELLA FISICA
SPERIMENTALE
Quando la Fisica sperimentale vuole studiare perfettamente un fenomeno
elementare (secondo i dettami di una certa teoria) deve isolarlo del tutto
dall’Universo circostante ed in particolare dalle interferenze non desiderate
dell’osservatore. Ciò non è sempre possibile in senso assoluto e comunque richiede
un apparato sperimentale sommamente raffinato e complesso, tanto più quanto più
il fenomeno osservato è “semplice”. In particolare, mentre gli isolamenti meccanico, termico, elettromagnetico,
spaziale sono relativamente agevoli, non è tale l’isolamento gravitazionale e
tanto meno quello temporale. Viceversa lo studio perfetto di un evento naturale reale – come
ad esempio la caduta di un frutto da un albero – determina complicazioni
teoriche estreme ed insuperabili. Ne nasce una sorta di dualismo: ciò che è semplice per la teoria
è sommamente complesso per la Natura, e ciò che è semplice per la Natura è
sommamente complesso per la teoria. L’INTELLETTO UMANO
Potrebbe avanzarsi l’ipotesi che l’intelletto darwiniano
del quale – per quanto ne sappiamo oggi – l’evoluzione ci ha dotati, non sia
nato per la comprensione della Natura e non sia adatto ad essa. In particolare esso va in cerca di leggi che non trova né al suo
interno né al suo esterno; potremmo dire, nel solco della precedente
metafora, che esso è intrinsecamente euclideo e procede per linee diritte, ma
anela a mapparsi – per intero – sulle strutture curve che formano il mondo. In realtà il nostro intelletto – e con esso la nostra ragione –
non sono perfettamente adatti nemmeno a sviluppare il pensiero razionale
ordinario: basta pensare per quante tortuosità e sofferenze deve procedere
chi cerca la dimostrazione di qualcosa di difficile, in matematica, oppure i
secoli – talvolta millenni – che occorrono per conseguire la dimostrazione di
alcune questioni di formulazione assai facile (es. trisezione dell’angolo,
quadratura del cerchio, ipotesi di Goldbach, Teorema di Fermat). D’altra parte non siamo del tutto estranei alla percezione di
qualcosa di curvo, che ci porti più vicino alla realtà: ma dobbiamo
invocare facoltà differenti, quali l’immaginazione, ed in particolare
l’espressione poetica verbale, la musica, le arti figurative e, nonostante
tutto, anche le scienze esatte in fieri perché le grandi (e piccole) innovazioni
vengono intuite o – se così si può dire – amate molto prima di essere
effettivamente costruite. Ma noi siamo in cerca di una Fisica strettissimamente razionale,
se possibile ancora più razionale di quanto sia fattibile oggi, cosicché
dobbiamo rinunciare alle facoltà irrazionali appena evocate; e allora ci si presentano
sostanzialmente tre possibilità: rinunciare ad una spiegazione unificata del
mondo, raddrizzare la Natura, curvare il pensiero razionale. Il primo caso (che consiste nell’accontentarsi di un numero
limitato di piani distinti) rispecchia la situazione presente della Fisica. Il secondo appare assolutamente velleitario e (anche posto che
si potesse fare) priverebbe la realtà di quella che è la sua stigmata
fondamentale, ossia l’esistenza, la quale sembra essere
inconciliabile, come già vedeva Kant, con la gratuità dei sistemi
assiomatici. Possiamo avanzare la congettura, adombrata nella metafora appena
utilizzata e forse suscettibile di adeguata dimostrazione, che “il reale non
è razionale, ed il razionale non è reale” oppure che “il reale è localmente
razionale, ed il razionale è localmente reale”, sebbene questa seconda
forma sia di gran lunga più impegnativa di quanto possa apparire. Un esempio può vedersi nella formulazione della previsione di un
fenomeno meccanicistico: abbiamo bisogno di partire da un punto reale (le
cosiddette condizioni iniziali, rilevabili soltanto con un certo grado di
precisione) a partire dal quale le nostre equazioni ci conducono a successive
configurazioni, il cui grado di realtà va sfocando: in qualche modo non
riusciamo a “mantenere” la realtà se non in un intervallo ristretto. Le formulazioni che escludono l’assoluta coincidenza tra
razionale e reale rappresentano (sotto questo aspetto) una sorta di ritorno a
Kant a partire dall’impostazione in qualche modo perentoriamente hegeliana
della Fisica contemporanea. Per quanto schiacciato da Newton fin quasi all’appiattimento,
Kant non deve essere considerato del tutto obsoleto: esso ha triturato
finemente una gran parte del pensiero degli antichi sofisti, ed il suo lavoro
può insegnarci almeno dove sono le trappole nelle quali è possibile, e tal
volta facile, cadere. Intere pagine sono dedicate nella “Critica della ragion pura” a
giudicare “troppo grande” o “troppo piccolo” alcuni oggetti di pensiero, i
medesimi che oggi ci creano sin troppi problemi; sono ragionamenti antichi,
questo è certo, e non è sensato cercare in essi le soluzioni: ma sono ancora
perfettamente validi per evidenziare le difficoltà, che sono molto maggiori
di quanto allora si potesse stimare. Certamente Kant vede come assolute quelle che abbiamo chiamato
Categorie della Fisica, e dà per certa una qualche forma di beta-Fisica, anzi
vede come vera e reale direttamente la Fisica newtoniana con la sua causalità
puramente meccanica; e questa è la parte meno duratura della sua opera. Ma quando si investiga nelle tenebre della Fisica è appropriato
rileggere spesso gli scritti di Kant, e cercare con attenzione qualche lampo
di luce; inoltre in Kant c’è un nucleo che non è kantiano, come in Hegel c’è
un nucleo che non è hegeliano, ed in genere come in ogni grande autore c’è un
punto d’appoggio che è altro rispetto alla sua opera. La terza è la strada, certamente impervia ed insicura, che si
vuole cominciare a tracciare in queste pagine. Finché si rimane a livello rudimentale, incurvare il pensiero
razionale è meno impossibile di quanto possa sembrare; ma già i primi passi
ci guidano lungo un sentiero malagevole e tortuoso, perché la tortuosità è in
noi. Una Fisica vera dovrebbe essere semplicissima, e forse lo
è; ma – almeno all’inizio – appare tremendamente complessa, a causa della dicotomia
tra essa ed il nostro intelletto per sanare la quale – ammesso che si riesca
nell’intento – occorrono profonde trasformazioni della via di approccio. PROTAGORA E GORGIA
Il nostro percorso consiste nel tentare di studiare con mezzi strettamente
razionali qualcosa che assumiamo non essere razionale (e forse, in senso limitato,
essere addirittura irrazionale) e ricavare da ciò le leggi della Natura, ove
possibile non approssimate ma esatte. Ancora una volta vedremo essenzialmente lo strumento, ma sarà
ridotto al nucleo più compatto, precisamente alla parte ineliminabile di noi
stessi e della nostra parola, la quale assume un ruolo essenziale. Infatti non ci proponiamo di rappresentare con parole una realtà
che sia altro ma assumeremo senz’altro che (per noi) la realtà “è” la parola;
tradizione d’altra parte molto antica, e molto solida, a partire da Eraclito. Per poter cominciare è necessario rendere ancora una volta il necessario
tributo ai presocratici, e precisamente all’antica sofistica, che forse non prese
un siffatto nome del tutto a caso. Questi autori, tra i quali hanno importanza anche molti
giudicati “minori”, non li conosciamo purtroppo direttamente ma soltanto
attraverso la tradizione (principalmente platonica); essi sono trattati (a
torto) come se fossero semplici retori, e si occupassero soprattutto di
politica e di filosofia morale: giudizio troppo restrittivo e senza dubbio
falso. Incontriamo per prima la figura di Protagora, e la sua
famosissima affermazione, di gran lunga la più fondamentale dell’intera
filosofia, che “L’uomo è la misura di tutte le cose, quelle che sono come
sono, quelle che non sono come non sono”. Per quanto noi ci si possa adoperare, non riusciamo ad uscire
dal campo di applicazione di questa affermazione, in nessuno dei numerosi
significati e gradazioni che essa è suscettibile di assumere: questa è la
Caverna di Platone, dalla quale non si esce; ma, pur incatenati, si può
tentare di guardar fuori (forse) attraverso qualche appropriato gioco di
specchi. La metà positiva della massima di Protagora – perché della
negativa sarebbe troppo complesso discutere – sostiene che qualsiasi cosa sia
percepita o pensata dall’uomo è antropomorfa; ossia che sempre noi
sentiamo, pensiamo, agiamo come uomini e tali restiamo, per quanto sia ignota
l’ampiezza di versatilità che si possa conseguire. Così è antropomorfa l’astronomia tolemaica, la meccanica
newtoniana, e la relatività einsteiniana; sono antropomorfe tutte le dottrine
scientifiche e tutte le forme di espressione, artistiche ed ordinarie. Sono antropomorfe le divinità delle varie mitologie non perché,
come spesso accade, siano presentate esplicitamente in forma umana, oppure siano
raffigurate con idoli di pietra o con idoli di carta aventi comunque forma
umana (ottica o acustica), ma perché sono espresse dagli uomini in modo
idoneo ad essere pensate – e soprattutto sentite – dagli uomini. Anche il lavoro che ci accingiamo ad iniziare sarà antropomorfo,
perché è fondato sulle implicazioni – dirette ed indirette – del pensiero
umano. Di Gorgia, altro autore di rango sommo, sono note le tre tesi,
che hanno un’importanza fondamentale anche oggi. Della prima avremo occasione di trattare. La seconda sostiene, nello stile dell’epoca, che non basta
pensare le cose affinché esse esistano: è un modo sintetico ed elegante di
affermare che il razionale non è reale (e viceversa) e costituisce una delle
basi che sono necessarie per la costruzione della nostra fisica. La terza affronta il problema della comunicabilità della
conoscenza fisica, in una forma che duemila anni dopo riecheggerà in Leibniz,
il quale esclude anch’egli totalmente una tale possibilità di comunicazione,
e tuttavia la restaura attraverso un deus ex-machina. Inoltre Gorgia prefigura specificamente il problema fondamentale
dell’esprimibilità dell’esperienza tramite parole, prima ancora della sua
comunicabilità. IL PUNTO DI PARTENZA
Un enunciato riconducibile all’antica sofistica riduce la realtà
a ciò che il senziente percepisce del sentito, o meglio a ciò che un
senziente sempre diverso percepisce di un sentito a sua volta sempre diverso:
in altre parole la realtà (come noi la vediamo) consiste in una massa di
interazioni isolate tra senzienti e sentiti, distribuite nello spazio e nel
tempo. Enunciati molto simili a questo, più tecnici ma tutto sommato
più fragili, circolano ai nostri giorni nell’ambito della meccanica
quantistica, la quale osserva per via sperimentale una crescente tendenza al
prevalere delle relazioni rispetto alle entità. A differenza dei sofisti, che non si aspettavano cose in sé,
la Fisica contemporanea tende a credere fideisticamente in esse, in una
misura che a Kant parrebbe eccessiva: perché tutti noi quando diciamo,
verbigrazia, “elettrone”, ci aspettiamo che esso sia “qualcosa”. L’enunciato dei sofisti può
essere un valido punto di partenza per il nostro lavoro, a condizione che si
riesca a conferire una struttura alla massa di interazioni che si vuole
studiare. Se le interazioni fossero del tutto casuali e disgiunte, ed
inoltre prive di contenuto, sarebbe sommamente difficile (tuttavia non
impossibile) sottoporle a uno studio che riveli qualcosa di più della
semplice esistenza della loro massa. Pertanto è inevitabile formulare qualche ipotesi attorno alle
interazioni che ci proponiamo di studiare; non è detto che le nostre ipotesi
siano suscettibili di verifica sperimentale, ma certamente non dovranno
essere in conflitto con qualsivoglia esperienza. Il ragionamento farà in modo che esse siano innanzi tutto
feconde, e secondariamente, conseguita qualche maturità, che siano ridotte al
minimo indispensabile. La prima ipotesi è che ciascuna interazione si possa esprimere
per mezzo di una proposizione e dunque che l’esperienza sia esprimibile a
parole: l’impegno non è così gravoso come pare perché anche i numeri sono
parole, e dunque anche suoni, immagini ed in generale tutte le percezioni che
siamo soliti studiare hanno natura verbale – sotto la condizione
indispensabile che la nostra percezione sensoriale sia discreta. Quali forme e quali contenuti debbano avere siffatte
proposizioni non è piccola questione e costituisce, in parte, una delle
incognite che abbiamo a disposizione per tentare una soluzione; sarà
inevitabile porre una certa differenza tra esprimibilità e comunicabilità,
postulata la prima, soggetta a varie gradazioni la seconda. Gran parte dello sviluppo di questa dottrina starà nella
soppressione o nella riduzione al minimo di quanti più assiomi possibile; tuttavia
non correremo mai il rischio di rimanere del tutto privi di assiomi, perché
vorremo indagare la realtà esterna e interna di un apparato conoscitivo umano
e ciò implica assiomi alcuni dei quali, pur essendo certamente assiomi, non
sono negabili coi nostri mezzi. Ma poiché siamo appena all’inizio di un percorso di ricerca, e
camminiamo su gambe sommamente gracili, dovremo essere relativamente larghi
nell’ammettere assiomi molti dei quali, progressivamente, saranno espunti. Le proposizioni che esprimono le interazioni senziente-sentito dovrebbero
essere chiamate proposizioni fisiche, ma includono un ambito molto più ampio
di ciò che comunemente connettiamo alla pura indagine fisica, ad esempio
giudizi estetici o, per così dire, introspettivi; non morali, nonostante una
forte vocazione in materia della tradizione filosofica, perché le
proposizioni morali non sono percezioni. Ma poiché la parola “fisica” è utilizzata (anche in questo
stesso testo) sia come sostantivo sia come aggettivo, ed in un gran numero di
diverse accezioni, preferiamo designare le percezioni immediate (in senso
sofistico) come v-proposizioni, tra le quali quando sarà necessario definiremo
le proposizioni fisiche in senso stretto. Postuleremo dunque l’unità del senziente, assegnando ad essa una
forma opportuna; e ancora, nei limiti del possibile, l’unità del sentito,
nonché l’accennata comunicabilità delle v-proposizioni. Dobbiamo eliminare del tutto, come potenzialmente fuorvianti e
forse addirittura insussistenti, i concetti che fanno capo alle Categorie
della Fisica: in modo che il nostro ambiente venga ad assomigliare
strettissimamente all’aritmetica e si possa sostenere – come in aritmetica –
che tutto ciò che è pensabile esista; un siffatto risultato, se si potesse
conseguire, ci metterebbe al riparo dalla seconda obiezione di Gorgia. Per dare vigore al nostro ragionamento, pur accrescendone le
difficoltà, dovremo bandire del tutto l’infinito attuale dalla nostra ricerca
e probabilmente, se ciò si rendesse utile o necessario, e fosse possibile, anche
l’infinito potenziale. Con il soccorso delle varie forme e gradi di infinito noi
immaginiamo di poter compiere azioni quali certamente non possiamo compiere,
fino al caso limite di manipolare o semplicemente designare numeri troppo
grandi: con queste supposizioni guadagniamo in razionalità, ma
perdiamo in esistenza. In particolare si dovrà prescindere, se non come strumento
euristico, dall’analisi infinitesimale. Sebbene non sia stato intrapreso in vista di tale obiettivo, ma
della più modesta ambizione di spiegare le “coincidenze” in un ambiente beta-fisico
dato per certo, questo studio è scivolato spontaneamente in un tentativo, o
forse meglio un’aspirazione a risolvere il sesto problema di Hilbert,
soluzione che non si può certamente conseguire con metodi primitivi. Ma, come sempre, le cose vanno dove vogliono: e con ogni
evidenza la formalizzazione della Fisica porta con sé la formalizzazione
dell’intera Filosofia della Natura, e forse molto altro, perché le cose si
trascinano a vicenda ed è veramente impossibile, in questo momento, definire
il confine. IL V-SOGGETTO
Il senziente dei sofisti, che qui chiamiamo v-soggetto, può
essere configurato come un insieme di v-proposizioni, il quale chiamiamo
varietà logica; di conseguenza una varietà logica deve essere identificata
con un singolo v-soggetto. La nostra scienza, in massima parte, sarà scienza dei morfismi
tra varietà logiche. Le v-proposizioni di una varietà si debbono immaginare separate
(dalla partizione di Anassimandro) in due sottoinsiemi, che chiamiamo
v-interno e v-esterno. Il nostro v-soggetto può essere immaginato come non troppo
dissimile da un osservatore einsteiniano, il quale non è appunto altro
che l’insieme delle sue osservazioni. Ma qualche differenza esiste, perché il v-soggetto non osserva
fenomeni, ma esiste, non pensa, e non fa astrazioni, ossia non tenta
di separare alcune cose in sé da altre cose in sé, o se lo facesse la sua
attività sarebbe considerata vita, non ricerca fisica; il suo campo di
osservazione non è “fisico” in senso stretto, ma “totale”. Le esperienze possono essere particolarmente semplici, come ad
esempio “questo tramonto è bello” o molto complesse, come dire che “un certo
strumento, in certe condizioni, ha dato una certa lettura numerica con un
certo numero di cifre significative”; ma le esperienze ideali o concettuali
non sussistono perché in un ambiente non galileiano non si possono
illazionare leggi, e nulla è ripetibile. Soprattutto, ai fini del nostro studio, il v-soggetto non deve
essere altro che una collezione bipartita di proposizioni, e dunque una
costruzione di natura algebrica (almeno finché non sapremo fare di meglio)
per la quale dobbiamo trovare gli assiomi appropriati. Nel nostro ambiente l’osservatore autentico è altro, e lo
chiameremo col nome di “v-Fisico”; il v-Fisico non è atto a turbare in alcun
modo la varietà che è oggetto di studio; la sua osservazione ha carattere
puramente logico, ed avviene al di fuori dello spazio e del tempo ed anzi, se
si riesce ad evitare che esse siano reintrodotte surrettiziamente, di tutte
le Categorie della Fisica. Le v-proposizioni che compongono un dato v-soggetto debbono essere
in numero finito, e ne rappresentano l’intera esperienza, anche interna. Per esempio le proposizioni dell’aritmetica (sia teorica sia
sperimentale) sono esperienza interna, e fanno parte del v-interno: da che
deriva che il v-soggetto può percepire soltanto un numero finito di
proposizioni dell’aritmetica. Anche i sogni (che per la ricerca filosofica sono sempre stati
incubi) fanno parte dell’esperienza interna e dunque, come v-proposizioni,
esistono. La finitezza del numero delle v-proposizioni in una varietà, ed
implicitamente nell’intero Universo (assunto per finito il numero dei v-soggetti)
implica già direttamente la finitezza della quantità di informazione che può
essere contenuta in un sistema fisico qualsivoglia; in più, la finitezza è
una premessa per poter serrare la realtà molto più strettamente che
fino alla compatibilità e giungere, forse, fino all’esistenza. Il carattere discreto della realtà naturale deriva
(necessariamente) dal carattere discreto della parola. Per due diverse ragioni dobbiamo vedere le v-proposizioni come
incognite: prima, perché non conosciamo, in generale, tutte le esperienze di
ciascun v-soggetto, seconda, perché ciascuna di queste v-proposizioni ha due
formulazioni: una (a-proposizione, da anthropos) strettamente
soggettiva, come percepita appunto dal v-soggetto, e quindi piena di
incrostazioni (spaziali, temporali, elettriche, gravitazionali, e simili),
l’altra (p-proposizione, da physis), per così dire “vera”, che
esprime la medesima percezione nel “linguaggio della Natura”, linguaggio che
ovviamente ci è completamente sconosciuto ed è forse incompatibile con il
nostro intelletto: esso contiene, nell’ipotesi allo studio, la reale
descrizione del fenomeno percepito. La stessa forma incognita, benché inconoscibile, è
necessariamente antropomorfa, per molte ed ovvie ragioni. La necessità del doppio linguaggio deriva da due considerazioni: · Le osservazioni sono sempre formulate in
termini delle citate Categorie della Fisica dalle quali vogliamo fare
astrazione, come se non esistessero, salvo poi ritrovarle in base a
pure considerazioni logiche (tenuto conto dei numerosi fatti nuovi,
Kant acconsentirebbe). · Le a-proposizioni sono sempre formulate
secondo lo schema nome-predicato: ma sia il nome sia il predicato posseggono
una frontiera, la quale induce il graduale sfumare del nome o del
verbo in qualcos’altro, cosicché anche le frasi più semplici, e non solo le
particelle elementari, hanno i loro principi di indeterminazione. Il nome è uno dei principali problemi: noi riusciamo a dare un
nome sia alle cose che sono sia alle cose che non sono, e cadiamo facilmente
vittima di illazioni contraddittorie. Il nome deriva da ciò che chiamiamo “concetto”, il quale
tuttavia è diffuso ampiamente (come minimo) nel regno animale: la gazzella,
ad esempio, ha un concetto ben chiaro di “leone”, cosicché non riconosce
individualmente questo o quel leone, ma (per restare in ambito classico) la
“leoninità”. Il nome è un passo ulteriore e richiede almeno un germe di
ragione, nonché almeno un rudimento di linguaggio: vediamo l’antico Adamo,
ancora allo stato animale, attribuire già i nomi ai componenti del mondo
circostante; e l’imposizione dei nomi, come se fosse un rito, è diffusa in
parecchie mitologie. Ma noi assegniamo i nomi alle “cose in sé” non ai fenomeni, ed
usiamo lo stesso nome come connessione (arbitraria) tra molte diverse
percezioni: pertanto per noi il nome è soprattutto una sorgente di errori,
sia per quanto attiene alle entità ordinarie, sia soprattutto a quelle
microscopiche (e macroscopiche). Le a-proposizioni possono contenere misurazioni di “grandezze”
che in quell’esperienza il v-soggetto considera reali o realistiche, ma
possono contenere tutt’altro, ad esempio sensazioni estetiche e persino, al
limite, “mistiche”. Esse si possono classificare in base al loro grado di comunicabilità
tra v-soggetti, argomento cui dovremo accennare; naturalmente le v-proposizioni
di più grande interesse, quelle che vedremo come strettamente “fisiche”,
posseggono una forte attitudine alla comunicabilità numerica, l’unica
compatibile con il genere di conoscenza fisica che cerchiamo. Il primo passo del nostro lavoro deve consistere nella
definizione di v-soggetto, dunque nell’identificazione degli assiomi che
caratterizzano la varietà logica: essi dovranno restringersi progressivamente
con l’avanzare della ricerca e con le varie possibili gradazioni dell’intensità
del v-soggetto. Accetteremo tra i v-soggetti anche le cose (secondo quanto ha
immaginato Leibniz) o li restringeremo agli esseri viventi, o soltanto agli
animali, o infine soltanto agli uomini, in quanto pienamente appercettivi? La tradizione della tecnica algebrica induce ad accettare
l’opzione più ampia possibile, per poi adottare requisiti più severi ogni
qualvolta si abbia bisogno di giungere a conclusioni più potenti: definiremo,
come si dice, una catena ascendente di tipi di v-soggetto, i cui
estremi dovremo cercare di individuare: ma secondo una valutazione piuttosto
ovvia, essi vanno da un v-soggetto atomico (nel senso logico del termine)
all’Universo intero (apeiron), checché si possa intendere con siffatta
terminologia. L’obiettivo di ritrovare le Categorie della Fisica nella
varietà logica non può essere azzardato troppo grossolanamente: potremmo
essere tentati, poiché abbiamo postulato che la varietà logica sia
partizionata in un v-interno ed un v-esterno, di identificare il v-esterno
con la materia; ma, se così fosse, il v-interno sarebbe lo spirito. Una siffatta impostazione darebbe origine a molte più difficoltà
di quante ne risolverebbe: intanto, dacché tentiamo di studiare Fisica e non
filosofia, non siamo autorizzati ad immaginare che l’interno di un v-soggetto
sia meno materiale dell’esterno, quale che sia il nuovo concetto di materia
al quale vorremmo pervenire. Inoltre, rischieremmo di impelagarci in una ulteriore Categoria
della Fisica, lo “spirito”, che non sapremmo come assiomatizzare (né tanto
meno, eventualmente, sperimentare), mentre il nostro scopo è di
ridurre quanto più possibile le Categorie della Fisica, non di ampliarle. Non dobbiamo temere di introdurre qualche concetto nella nostra
Fisica, la quale consiste esclusivamente di parole e può accoglierne
agevolmente; ma non dobbiamo inventare entità (salvo che sia indispensabile)
ed accontentarci di quelle astrazioni che si traducano in proprietà della
nostra varietà logica. Poiché il v-soggetto, per la definizione che ne abbiamo dato, è
una collezione di “percezioni” (ma il senso di questa parola deve essere
chiarito rigorosamente) dobbiamo escludere dai v-soggetti quelli privi di
percezioni (oppure capaci di percezioni che non possiamo esprimere a parole);
successivamente, nella catena ascendente di v-soggetti dovremmo definire
quelli dotati di “coscienza”, di “intelletto”, di “volontà”, e ancora altri. Coscienza, intelletto, volontà sono facoltà astratte che
sembrano estranee alla Fisica ma sono legate strettamente con la physis
in quanto osservata, e debbono essere studiate compiutamente, perché una Fisica
che vuole spiegare tutto deve veramente spiegare tutto. In particolare l’uso della parola “volontà” non deve stupire
troppo, perché il medesimo concetto è sottinteso ogni volta che si cercano
leggi in qualsiasi scienza; le ordinarie leggi della Fisica sono una forma di
“volontà” che quando fossero assolutamente certe e non ulteriormente
motivabili potremmo chiamare “volontà” della Natura; qui la parola si usa con
un ulteriore grado di generalizzazione, in un apposito senso convenzionale. Quando noi tentiamo di espungere dalla Fisica tutte le sue
tradizionali categorie ci rimangono soltanto i vincoli assoluti del nostro
linguaggio e pochissimo altro: appunto la partizione di Anassimandro, la
coscienza, la volontà, l’intelletto, la ragione. Ed allora, ancorché la nostra indagine sia strettamente fisica,
dobbiamo entrare in contatto con le astrazioni necessarie per studiare le
v-proposizioni secondo la prospettiva attraverso la quale abbiamo interesse a
vederle. Gli assiomi che dobbiamo introdurre si dividono pertanto in tre famiglie: · <S> Del
senziente · <U> Del
sentito, o della coerenza, o della comunicabilità · <F> Del
v-Fisico, i quali definiscono ciò che vogliamo sapere, e come vogliamo
saperlo Gli assiomi del v-Fisico e quelli del v-soggetto non sono la
stessa cosa. Poiché tutte le proposizioni della varietà hanno qualcosa di
essenziale in comune, che appartengono al medesimo v-soggetto, la famiglia <S>
non è vuota ed i suoi assiomi esprimono ciò che possiamo chiamare “unità” del
v-soggetto. La famiglia <U> dovrebbe formalizzare “l’unità del
sentito” cioè il postulato che vediamo tutti lo stesso mondo; tutto ciò non
può essere dato per certo acriticamente, neanche nel solo ambito della
Fisica: vedremo che ciò potrebbe entrare in conflitto con gli assiomi del
v-soggetto. La famiglia <F> definisce l’oggetto dell’indagine fisica
e, di conseguenza, i “limiti” della Fisica. È evidente che se questo approccio fosse fecondo, non appena noi
saremo riusciti a portare ad un ragionevole grado di perfezione questi
assiomi avremo, se così si può dire, “concluso” con la Fisica, in quanto
l’avremmo ricondotta alla logica della nostra espressione e comunicazione del
pensiero senza introdurre altre “leggi di Natura”; se invece fosse sterile, il
presente lavoro sarebbe una cosa vana. Una questione essenziale, necessaria a chiarire a noi stessi la
nostra mentalità, nasce da una domanda del tutto naturale, che sorge
spontaneamente ma è suggerita anche da qualsiasi ipotesi di applicazione
pratica. Può un v-soggetto modificare la sua varietà, ossia fare
in modo che certe sue percezioni siano quali esso le desidera? In un ambiente beta-fisico, immerso nel tempo, una risposta generale
sarebbe relativamente semplice: la cosa è a volte possibile a volte
impossibile; è possibile se il desiderio si riferisce ad una percezione
futura, ed il soggetto è in grado di intervenire sulla catena di cause che dal
presente conducono all’evento desiderato oppure l’evento desiderato è già
nell’ordine delle cose. Ma siccome studiamo un ambiente nel quale il tempo non c’è, né
la causalità, il v-Fisico contempla acronicamente la varietà logica da una
sorta di Iperuranio, come se essa fosse un insieme numerico (variamente
strutturato); non ha senso enunciare che a seguito della volontà del
v-soggetto una certa v-proposizione sia presente nella varietà in
sostituzione di un’altra che non esiste ma sarebbe esistita in assenza di
quell’atto di volontà. Pertanto se cerchiamo una forma di volontà nella varietà
logica, la dovremmo rintracciare a partire dalle sue tracce fossili, qualcosa
che possa essere simile ad una torsione, come si cercano il baricentro
o gli autovalori in una struttura statica. Qui, probabilmente, è la chiave di tutto. La nostra scarsa conoscenza ci costringe a ragionare (almeno
inizialmente) come se, salvo il rispetto degli assiomi, le v-proposizioni di
una varietà fossero casuali, sebbene in realtà non possa essere così;
pertanto l’indagine deve essere orientata verso le strutture che
necessariamente sussistono anche negli insiemi casuali di
proposizioni. In effetti, come apprendiamo anche da altre conoscenze, non c’è
nulla di più “volitivo” del caso. NATURA PARZIALMENTE IRRAZIONALE DELLA TRASMISSIONE
DELLA CONOSCENZA MATEMATICA
… STRUTTURA DELLA VARIETA’ LOGICA
In corrispondenza alle varie possibili ipotesi sulla varietà
logica, noi possiamo immaginare molte “Fisiche” differenti tra loro,
potenzialmente adatte a spiegare i medesimi fatti. Molto dipende, come si vedrà, dalla partizione di Anassimandro e
dalle comunicazioni tra varietà. Non sarà vano osservare alcuni casi particolari della varietà
logica isolata. · Se la varietà logica è vuota, siamo nell’apeiron
di Anassimandro. · Se è composta di una sola proposizione, la
nostra “realtà” contiene un solo v-soggetto che percepisce soltanto sé
stesso: esso risulta molto affine all’Essere parmenideo, con varianti in
funzione di ciò che possiamo dire a proposito dell’unica proposizione
esistente. · Quando non teniamo alcun conto delle p-proposizioni
tutta la nostra conoscenza deriva dalle a-proposizioni, e allora possono
darsi quattro sottocasi: 1.
La varietà è alfa-assiomatica, ossia
tutte le sue proposizioni sono conseguenza logica di una certa quantità di
assiomi, cosicché tutto ciò che esiste è dimostrabile. Noi diciamo che le proposizioni della varietà sono conseguenze positive
del parco di assiomi; la struttura è affine a quella dell’aritmetica. Stante la finitezza della varietà le questioni di completezza
non hanno luogo; in assenza di ipotesi particolari tutti i v-soggetti sono completamente
mappabili ed isomorfi. 2.
La varietà è beta-assiomatica, ossia
tutte le sue proposizioni sono tali da non contraddire ad un certo parco di
assiomi, e per il resto libere. Diciamo che le proposizioni della varietà sono conseguenze negative
del parco di assiomi; la struttura è affine a quella della Fisica teorica
contemporanea o di ampi regni di gran parte delle Matematiche. Diremo che la varietà logica, cui abbiamo imposto gli assiomi
negativi (leggi), è una beta-Fisica. Le comunicazioni tra varietà logiche di questo tipo avvengono
attraverso mappe che fanno corrispondere le a-proposizioni dell’una con
quelle dell’altra; le quali mappe è sufficiente che siano definite in
corrispondenza agli assiomi. Qualsiasi giudizio di possibilità o impossibilità, o di
necessità o di “miracolo” a proposito di un evento fisico presuppone la precedente
accettazione di una beta-Fisica. Per esempio la conversione materia-energia è fatto normale per
la beta-Fisica relativistica, e un “miracolo” (ossia un fatto impossibile
verificato) per la beta-Fisica newtoniana. Senza l’accettazione di una determinata beta-Fisica nessun
evento può fare oggetto di giudizi di possibilità. Anche certi eventi particolari, che possiamo chiamare
intuitivamente “coincidenze”, possono essere così classificati soltanto sotto
l’ipotesi di una certa beta-Fisica di riferimento. 3. La varietà è semi-razionale, ossia le sue
proposizioni sono assiomi o sono dedotte, senza rigore, da assiomi: al
variare delle ipotesi è possibile ricostruire come casi particolari (in
qualche modo razionalizzate e formalizzate) le posizioni di molti filosofi,
tra i quali hanno rilievo particolare Leibniz e Spinoza. 4. Le a-proposizioni della varietà non sono
collegate in alcun modo razionale, cosicché la sola conoscenza possibile
deriva da ricorrenze osservate empiricamente, i cui caratteri affondano nelle
particolarità che si possono trovare nel mondo numerico. Fondamentale è il sottocaso 2, perché ammette al suo interno, in
forma di beta-Fisiche, le varie fisiche sperimentali come si sono avvicendate
storicamente; tuttavia la brevità di questo piccolo testo non permette di
discuterne quanto sarebbe necessario. Altrettanto, e forse ancora più interessante, sarebbe un
catalogo delle varie filosofie relative al sottocaso 3, la cui esposizione
l’approccio algebrico renderebbe più trasparente, cosicché sarebbero ben
visibili le eventuali incoerenze o contraddizioni e le conseguenze ultime
delle varie posizioni filosofiche. Il lavoro dei grandi filosofi nasconde certamente intuizioni
profondissime, cui li condusse il desiderio ardente di afferrare la realtà;
sono forse come pietre preziose immerse in una massa d’oro; trovarle è
difficile, perché si possono portare alla luce soltanto quando si è già in cerca
di qualcosa di molto simile. Ma noi, innanzi tutto, dobbiamo andare alla ricerca della via
principale, la quale ci insegni che cos’altro occorre cercare; e nella
direzione verso la quale è orientato questo scritto, cioè un tentativo di
porre qualche fondazione ad una Fisica non galileiana, le cose ci conducono
spontaneamente verso una varietà logica completamente diversa dalle specie
appena elencate, le cui proposizioni non costituiscono una struttura
razionale, e meno ancora una struttura assiomatica. LA VARIETA’ FISICA
La costruzione di una varietà logica sufficiente alla conquista
della Fisica è molto difficile, e probabilmente (se fosse possibile) richiederà
un tempo considerevole e qualche ricercatore di rango sommamente elevato,
prediletto dalla Musa e da essa nutrito in misura infinitamente superiore
rispetto a chi scrive. Sarebbe già gran cosa se si rivelasse utile ripercorrere questi
poveri passi, per confermarli ovvero anche per rinnegarli, purché in qualche
modo non fosse del tutto indifferente tenerne conto. Per lunghissimo tempo le idee qui accennate sono rimaste sepolte
in qualche zona remota della mia mente: lontano da me, e trascurate, hanno
subito una sorta di maturazione spontanea, che sarebbe forse più appropriato chiamare
fermentazione, ma non hanno ancora mostrato appieno il loro frutto. La mia inclinazione a non pubblicare le avrebbe forse lasciate dormire
indisturbate per tutto il tempo necessario, se non fosse la morte che mi si
mostra, in apparenza non troppo da vicino, ma sempre meno timidamente; così
ch’essa mi fa inclinare a mettere in salvo questo gracile canovaccio,
quale che sia il suo valore, perché ritrovarlo ex novo potrebbe essere
facilissimo, o potrebbe non esserlo. All’opera completa avrei dato un titolo che mi pareva
bellissimo, “Perì Physeos”, ma non può essere sprecato vanamente; lo
utilizzerò quando sarò giunto ad una conclusione che mi paia soddisfacente,
oppure lo lascerò in eredità a colui – oppure, ovviamente, colei – che condurrà
a perfezione questo disegno. Dobbiamo immaginare l’Universo come una collezione finita di
varietà logiche, ognuna delle quali corrisponde ad un v-soggetto, legate tra
loro da connessioni la cui natura si deve investigare. Ma esse non apparterranno a nessuno dei sottocasi appena
accennati, i quali possono essere immaginati come casi limite o degeneri di
varietà logica, ma avranno una struttura peculiare, rivolta precisamente
all’indagine fisica, caratterizzata da un idoneo sistema di assiomi. Alla particolare specie di varietà logiche sulle quali si
concentrerà il nostro studio daremo un nome convenzionale, che le distingua
dalla generica varietà logica: le chiameremo “varietà fisica”, con l’avvertenza
che l’aggettivo “fisica” è qui utilizzato in un senso profondamente diverso
da quello corrente. Nell’immaginazione del lettore, in prima approssimazione, la
varietà fisica deve essere pensata come un singolo uomo e gli assiomi debbono
in qualche misura rappresentare il suo apparato conoscitivo: il nostro
“uomo-varietà fisica” potrebbe rammentare, in qualche modo, il tradizionale
osservatore einsteiniano, ma è privo di attitudini galileiane e costituisce
un oggetto, piuttosto che un soggetto, di studio. Tuttavia le manipolazioni e le trasformazioni che tenteremo di
operare sulle varietà fisiche possono condurci a costruzioni logiche molto
diverse dagli uomini, ma indispensabili per lo studio del soggetto e dei suoi
strumenti di comprensione della realtà: e anch’esse saranno varietà fisiche. Lavoreremo come chi esplora una struttura algebrica, senza tenere
alcun conto (finché è possibile) del significato di ciò che cerca di
districare, ma soltanto delle proprietà formali implicate dagli assiomi
espliciti o taciti; gli elementi della varietà sono proposizioni, e pertanto
gli assiomi taciti, dai quali sarà necessario guardarsi, non saranno di poco
peso. In questo genere di indagini il tempo e lo spazio (e più in
generale le Categorie della Fisica) sono assenti e dobbiamo immaginare noi
stessi (in quanto studiosi) come situati al di fuori del complesso delle strutture
indagate, in modo che possiamo contemplare l’Universo intero senza farne
parte: ciò che, naturalmente, è un’astrazione. Le singole varietà, pur dotate di una struttura formalmente più
complessa, debbono essere pensate come se fossero insiemi (strutturati) di
numeri naturali, a proposito dei quali non ci poniamo problemi di dove e di quando. Per esempio se osserviamo l’insieme dei numeri dispari minori di
100000, nessuno ci chiederà se li osserviamo com’erano nel passato, o
come sono nel presente, o come saranno in futuro, né ci sarà
chiesto dove sono, perché sono, come sono ordinati, né
quanto pesano. Se fosse possibile definire un tempo elementare all’interno
della varietà fisica, allora vedremmo in essa svolgersi l’intera vita del
v-soggetto con il quale la identifichiamo e, corrispondentemente, vedremmo i
suoi confini secondo l’ordine determinato da quel tempo. Se ciò fosse possibile in più di un modo, vedremmo svolgersi un’altra
vita dello stesso v-soggetto secondo sequenze differenti, persino
totalmente differenti, delle medesime esperienze; ma in nessun caso potremmo
vederla svolgersi secondo il nostro tempo (dell’osservatore). La chiave del nostro lavoro, però, sta nell’astenerci dal
tentare di ritrovare troppo presto e troppo semplicisticamente le Categorie
della Fisica, o di immaginarle nei termini di quelle che conosciamo. Sembra (intuitivamente) probabile ch’esse siano molto ben nascoste
nel cuore della varietà fisica, e siano assai restie ad arrendersi alla
nostra ragione, con la quale potranno stipulare al più un accordo su basi di
reciprocità. Forse non ritroveremo ad una ad una le Categorie della Fisica,
ma tutte insieme, ed a seguito di qualche osservazione elementare, quasi
banale, che poteva essere veduta anche in un passato remotissimo e che
tuttavia, come tutte le evidenze troppo evidenti, ai nostri occhi è
invisibile. ALGEBRA DELLA VARIETA’ FISICA
Al momento presente non abbiamo mezzi per indagare una ad una le
singole varietà fisiche in quanto esistenti, ma possiamo soltanto andare in
cerca di proprietà generali, le quali debbono essere dedotte con metodo
sostanzialmente assiomatico. Abbiamo soltanto qualche gracile punto di partenza: · abbiamo definito i v-soggetti come composti
di un numero finito di v-proposizioni, divise in interne ed esterne, delle
quali per momento non sappiamo nulla. · vogliamo trovare un modo idoneo per definire
l’unità del senziente e l’unità del sentito. · vogliamo definire mappe, possibilmente
biunivoche, tra una parte delle p-proposizioni della varietà A e le
corrispondenti della varietà B; le mappe stabiliscono le comunicazioni tra
v-soggetti e pertanto, implicitamente, classificano le proposizioni coinvolte
(percezioni) come fisiche in senso stretto. Le p-proposizioni (poiché alle a-proposizioni non si attribuisce
per ora valore scientifico) non si deducono le une dalle altre e non
derivano, né positivamente né negativamente, da alcun parco di assiomi. In queste indagini la beta-Fisica tradizionale ci porge un
aiuto, non tanto perché ci insegni che cosa “è”, ma perché ci mette in
guardia da ciò che sicuramente “non è”: ad esempio non possiamo aspettarci di
poter ordinare le p-proposizioni dei vari v-soggetti con il medesimo criterio
ed in maniera congruente (mappabile). Noi miriamo a conoscere i contenuti delle p-proposizioni, e
probabilmente potremo riuscire a conseguirne una parte; ma, salvo sorprese, una
volta trovate potremo comprenderle soltanto attraverso la re-traduzione in
a-proposizioni, le quali saranno espresse a mezzo di Categorie della Fisica
(non necessariamente le medesime cui siamo abituati). Sono molti i modi nei quali è possibile postulare qualcosa di
formale a proposito dei contenuti delle p-proposizioni (che sono comunque
antropomorfe, in quanto traduzioni formali di esperienze soggettive umane o
umanizzabili), ed è fondamentale decidere se occorre operare una scelta di
definizioni (intorno al v-soggetto) che ci protegga dalle contraddizioni (il
concetto di contraddizione tra p-proposizioni per ora non è definito). Ma non è detto che escludere le contraddizioni sia necessariamente
una cosa saggia: le contraddizioni potrebbero servire, in qualche modo, da
“confini” del v-soggetto. Il lettore vede che, se sapessimo assaporare la voluttà del non
sapere, simili premesse ci condurrebbero vicino alla felicità. Tuttavia, la definizione di v-soggetto come varietà fisica è una
prima garanzia di unità; poiché le varietà fisiche sono esenti dalle Categorie
della Fisica, dobbiamo immaginarle come strutture statiche, della stessa
natura delle strutture finite di numeri interi. In una tale struttura, ovviamente il v-soggetto non nasce, non
muore e non diviene cosicché noi lo osserviamo dall’esterno come siamo soliti
osservare le cose completamente passate (ma, ovviamente, in assenza di
tempo). Persino ogni eventuale sequenziamento delle sue p-proposizioni
deve essere introdotto arbitrariamente, oppure come ricaduta di qualche
assioma: tuttavia, se riuscissimo a distinguerle, le p-proposizioni che
afferiscono alla nascita e quelle che afferiscono alla morte potrebbero
definire un ordine del tempo, forse sufficiente. Se noi riuscissimo a dimostrare una certa p-proposizione,
ed a conoscerne il contenuto, ciò sarebbe possibile soltanto dall’esterno;
non potrebbe avvenire dall’interno, né attraverso una successione di
inferenze condotte a partire da altre p-proposizioni (per la definizione di
varietà fisica, la quale è un insieme dato di proposizioni e non
ammette processi deduttivi al suo interno) né per integrazione, a partire da
una proposizione iniziale, di stati successivi legati l’uno all’altro dalla
causalità. Ciò che noi possiamo conoscere delle p-proposizioni non sono (in
genere) enunciati attinenti al loro contenuto, ma alle p-proposizioni stesse;
le conseguenze degli assiomi che avremo introdotto non sono p-proposizioni,
ma proposizioni intorno alle p-proposizioni, che dovremmo chiamare
meta-p-proposizioni o più brevemente m-proposizioni. Con questo mezzo, del tutto rudimentale, si può ottenere una
forma di “curvatura” del pensiero razionale, perché noi faremo ragionamenti
non a proposito delle cose, ma a proposito della forma delle
proposizioni che descrivono le interazioni tra senzienti e sentiti. Le inferenze tra p-proposizioni avvengono per questioni
puramente formali, ad esempio per similitudine di struttura tra certi
aggregati di p-proposizioni, dunque per via simbolica; e non è inverosimile
che si possa definire una causalità formale, più solida della corrente
causalità crono-meccanica. Ma per queste cose dobbiamo rinviare a una nota successiva, la
quale abbia rigore sufficiente per poter essere letta con un minimo di
costrutto. Per ora, come si suol fare con le strutture algebriche,
prenderemo in esame la possibilità di compiere operazioni tra varietà
fisiche. § UNIONE DI V-SOGGETTI Può avere molta importanza teoretica
l’adozione di assiomi che permettano l’unione di soggetti, ossia tali che sia
possibile definire su qualche idoneo insieme di varietà fisiche un’operazione
di composizione, comunque intesa, il cui esito sia ancora una varietà fisica. § SCOMPOSIZIONE DI V-SOGGETTI Simmetricamente ed in gran parte
conseguentemente, può essere utile studiare a che condizioni possano esistere
sottovarietà di una varietà fisica, ciò che consentirebbe, in qualche
maniera, di smontarla; se una varietà fisica ammettesse sottovarietà,
si potrebbero definire una o più catene ascendenti all’interno della varietà,
con conseguenze particolarmente importanti. § INVERSIONE Ma l’operazione che appare più promettente
di risultati immediati è l’introduzione di un concetto di dualità per le
varietà fisiche, ottenuto attraverso un’operazione di inversione della
singola varietà. L’argomento può essere accennato anche in
una nota basica come questa, e per la sua importanza merita un paragrafo a
parte. INVERSIONE DELLA VARIETA’ FISICA
Un’operazione
di somma importanza deriva dall’unico elemento della struttura del v-soggetto
al quale non possiamo rinunciare in alcun modo: che esso sia un agglomerato
di v-proposizioni suddivise con certezza tra “esterno” ed “interno”. Si potrebbe immaginare,
forse proficuamente, di invertire la partizione di Anassimandro attraverso
lo scambio tra interno ed esterno. Ciò potrebbe
apparire improponibile in filosofia, ma in matematica è pienamente ortodosso:
non sarebbe altro che la definizione di una forma di dualismo. Il nostro
assunto, che il v-soggetto sia il centro di una “visione empirica del mondo”
espressa dalle sue v-proposizioni è una formulazione “idealistica” della
Fisica, la quale presuppone che il v-soggetto abbia posto sé stesso come
“altro” dall’Universo “circostante”. Ma a questa si
può opporre la corrispondente formulazione “materialistica” la quale
asserisce che un Universo parziale ha posto sé stesso attraverso l’espulsione
dall’apeiron di un v-soggetto (qualcosa di paragonabile alla deposizione di
un uovo, come si presenta talvolta nelle mitologie). Naturalmente
esistono tanti Universi “incompleti” quanti sono i v-soggetti, cosicché ad
ogni v-soggetto corrisponde un anti-soggetto definito dall’inversione tra il
suo v-interno ed il suo v-esterno. La varietà
fisica è un’entità algebrica definita dai suoi assiomi: se questi sono
coerenti essa, a suo modo, esiste; allo stesso modo (se si possono
definire senza incoerenze) gli anti-soggetti, nel mondo dei loro assiomi, esistono;
ed anche le conseguenze della loro esistenza, in quanto applicabili, esistono. L’importanza dell’anti-soggetto
può essere grandissima, e basata su proprietà invisibili del soggetto;
il lettore vede facilmente che (dettagli a parte) l’importanza del semi-meridiano
di Greenwich sta nel suo complementare, o anti-meridiano, e precisamente
nella centralità di questo rispetto alle terre dell’Oceano Pacifico. Parimenti la
parte essenziale del comportamento di molte funzioni matematiche fondamentali
è nascosta dietro i valori che esse assumono nell’inesistente campo
dei numeri complessi; per esempio il senso di pi-greco
è nella periodicità della funzione esponenziale, non nella metrica del
cerchio. Il problema,
naturalmente, è accertare che la varietà fisica sia idonea a descrivere la
totalità della nostra esperienza, e non contenga arbitrarietà: sarebbe molto
utile che gli assiomi necessari siano così pochi, e così forti, da rendere
impossibile negarli senza negare al contempo la possibilità di ogni conoscenza
fisica. Ciò sarebbe
vero, ad esempio, se essi si potessero ridurre ad un unico assioma: che la
conoscenza fisica si esprima soltanto attraverso parole, scritte in un
linguaggio opportuno, strutturate in proposizioni di lunghezza finita e,
soprattutto, limitata da un numero sufficientemente grande. L’interesse
teorico per l’anti-soggetto si fa più forte non appena gli assiomi <S> del
v-soggetto siano tali da essere soddisfatti anche dall’anti-soggetto, con o
senza un’opportuna trasformazione delle p-proposizioni: ciò permetterebbe di
definire una particolare classe di v-soggetti il cui anti-soggetto è
anch’esso un v-soggetto. In via
puramente congetturale, per mostrare fin dove potrebbe spingersi il
ragionamento se gli assiomi fossero escogitati in maniera soddisfacente,
possiamo chiamare i v-soggetti di questa classe viventi, o animali, o animati,
o persino umani: naturalmente ciò dà all’immaginazione un mezzo per
rendere concreta l’astrazione, ma non permette alcuna deduzione che non provenga
dagli assiomi, né garantisce che i detti assiomi siano adatti alla nostra
realtà. Le due visioni del
v-soggetto sono simmetriche e si possono scambiare: il v-soggetto iniziale
può rintracciarsi nell’enunciazione materialistica e l’anti-soggetto in
quella idealistica: in questo caso l’uomo diventa oggetto, e non soggetto, di
osservazione. Vogliamo
perseguire una scienza nella quale le due formulazioni idealistica e
materialistica siano equivalenti e sarebbe importantissimo, e forse
possibile, che noi appartenessimo ad una tale classe di v-soggetti, cioè che
opportuni assiomi <S> ed <U> siano atti a descrivere
compiutamente la nostra esperienza. Dobbiamo
osservare che, se fossero entità temporali, v-soggetto ed anti-soggetto
dovrebbero “nascere” e “morire” allo stesso tempo; ma nel nostro quadro
teorico acronico ciò non ha senso. L’anti-soggetto
vede come interno ciò che per il v-soggetto è esterno, e vede come esterno
ciò che per il v-soggetto è interno. Se
l’anti-soggetto “sogna”, i suoi sogni appaiono perfettamente reali al
v-soggetto: naturalmente a noi interessano soltanto strutture logiche
solidamente fondate sotto il profilo algebrico, e pertanto dobbiamo dare una
definizione formale delle esperienze interne che classifichiamo come sogni; ma
si deve osservare come i mitografi (in questo caso induisti) abbiano sfiorato
grandiose intuizioni. Non ci sono
ragioni perché v-soggetto ed anti-soggetto abbiano il medesimo “baricentro” e
pertanto nemmeno la medesima “volontà”, ma non siamo pronti a discutere di
questo. Possiamo
introdurre una elementare notazione simbolica, che sia d’aiuto
all’espressione di alcune semplici idee. Sia V+
una varietà fisica invertibile (costituita da un insieme partizionato di
proposizioni scritte in un certo linguaggio) e sia dato il suo anti-soggetto,
(anch’esso un insieme partizionato di proposizioni scritto nel medesimo o in
un altro linguaggio) che possiamo notare come anti-soggetto V-. Sia T una
opportuna trasformazione della prima struttura nella seconda, così che si
possa scrivere V-=TV+: la mappa trasforma ogni
proposizione dell’interno di V+ in un’altra dell’esterno di V-,
ed ogni proposizione dell’esterno di V+ in un’altra dell’interno
di V-. Se la
trasformazione T è biiettiva sarà, reciprocamente, V+=T-1V-;
potremmo inoltre avere interesse ad operare qualche estensione naturale
in V- la quale, attraverso la mappa inversa si traduca in un ampliamento
del v-soggetto iniziale, che potremo chiamare chiusura di V+. Tutto dipende
da come si sceglierà di formulare gli assiomi del soggetto e dalla
definizione della trasformazione T. Possiamo
definire un operatore A che estrae il sottoinsieme delle proposizioni
dell’interno di Vx che fanno parte
dell’aritmetica (finita, ma non ciclica) di Vx;
allora AV- sarà l’aritmetica di V-, ossia l’insieme
delle proposizioni aritmetiche che l’anti-soggetto V- contiene nella
parte interna della sua partizione, le quali esistono in forma trasformata
nella parte esterna della partizione associata al soggetto V+. Infine possiamo
scrivere RV=T-1ATV la quale definisce le proposizioni fisiche
reali del soggetto V e l’operatore R=T-1AT che le estrae; la
formula, per ora più ideologica che matematica, rappresenta un collegamento
tra razionale e reale, ma ha bisogno di una discussione molto più
approfondita; essa è implicita, sostanzialmente, nella sola ipotesi dell’invertibilità
del soggetto. Così facendo l’esistenza
fisica si riconduce all’esistenza matematica la quale, a sua volta, ne
otterrebbe chiarezza. La realtà
fisica percepita dal soggetto V+ è la contro-immagine
dell’aritmetica del suo anti-soggetto V-; questo, supposto che in
essi siano validi gli assiomi del soggetto e che questi siano sufficienti a
contenere una qualche forma di aritmetica finita, ha sulla propria aritmetica
un potere creativo simile a quello che hanno gli uomini sulla loro, cosicché le
varie aritmetiche dei vari anti-soggetti sono tutte compatibili. Di conseguenza
sono tutte compatibili le realtà fisiche dei vari soggetti, senza dover
ricorrere alla Monade suprema di Leibniz. Se si potesse solidificare
questo abbozzo di edificio, sarebbe conseguita l’aspirazione gorgiana (ed
anche kantiana, e di molti altri tra i quali Pitagora e Platone) di
connettere la ragion pura alla realtà; ma si dovrebbe passare attraverso la
trasformazione T, ed inoltrarsi molto a fondo in un’Aritmetica pur sempre
antropomorfa ma, per molti versi, aliena. Ritorna con più
grande potenza, in forma differente ma nel medesimo spirito, l’affermazione
di Galileo, sull’essere “scritto in lingua matematica questo grandissimo
Libro dell’Universo, che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi”. A prima vista
la definizione dell’operatore R deriva da pochissime ipotesi: che ogni
soggetto passibile di conoscenza sia partizionato in un interno ed un
esterno, che la conoscenza che chiamiamo “fisica” sia tutta esterna, che la
conoscenza che chiamiamo ”aritmetica” sia tutta
interna, che l’aritmetica “reale” sia finita, che l’esistenza di un
linguaggio rigoroso, al di sopra di un certo grado di complessità, consenta
l’inversione del soggetto. Naturalmente
non si deve concedere troppo alla tentazione di personificare i soggetti e
gli anti-soggetti dei quali parliamo, i quali sono soltanto strutture
algebriche. Certamente il
percorso necessario a superare tutte le difficoltà che pone la trasformazione
dei pochi enunciati appena elencati in una scienza (se così si può dire) “assoluta”
è pieno di difficoltà e, per quello che si può immaginare, non è breve; da
una parte milita in contrario la potenziale negabilità degli assiomi,
dall’altra il rischio dell’eventuale scarsa rilevanza delle conclusioni che
si possono trarre. In compenso ha
il vantaggio di non richiedere apparecchiature sempre più grandi e complesse,
e prende di mira direttamente il risultato finale e non la più vicina tappa
intermedia. PERCORSO
Tenteremo qui di indicare il percorso che possa condurre alla
meta di questo disegno per la via più breve, la quale sembra la più naturale
ma, come spesso accade, può non essere la strada maestra. … TECNOLOGIA
Non è prevedibile che il tipo di indagine cui qui si cerca di
dare inizio possa condurre a brevissimo termine ad applicazioni tecnologiche;
ma, se e quando esse saranno possibili, saranno applicazioni di tecnologie
radicalmente diverse dalle nostre contemporanee. Il tipo di fisica qui delineato, se si potesse costruire
appropriatamente, non sarebbe un semplice “raccordo” tra visioni del mondo
eterogenee, atto a limare gli spigoli delle varie Teorie fino a farle
incastrare perfettamente. Persino chi scrive pensava, inizialmente, che una volta riusciti
a ritrovare spazio, tempo, materia, energia e tutto il loro corredo in
una forma logicamente inattaccabile, si sarebbe potuto semplicemente
rifondare la Fisica corrente su basi più salde, essendo venuti a capo dei
difetti d’approccio legati al metodo sperimentale quando esso si avvicina
agli estremi e, ciò fatto, rifluire (dal punto di vista pratico) nella
tecnologia ordinaria. Ma il tracciato stesso della via di sviluppo ci mostra che,
anche sotto gli aspetti tecnologici, un siffatto modo di intendere la Fisica
muterebbe molte cose. Il nostro modo ordinario di acquisire “previsioni” di eventi
futuri (per esempio la posizione di un pianeta) è legato alla causalità,
meccanicistica o al limite statistica; dal presente andiamo al futuro
attraverso la conoscenza delle fasi intermedie e delle catene di cause che
costruiscono l’evoluzione temporale del fenomeno: nelle ipotesi che le
equazioni differenziali siano sufficientemente esatte, che le soluzioni
convergano, che i calcoli numerici siano fattibili ed adeguatamente precisi: se
in una qualsiasi delle fasi intermedie compare qualche “imprevisto” l’intero
lavoro risulta vanificato. Molto simile è il procedimento necessario per determinare la
realizzazione di un certo evento: qui è possibile addurre un esempio, non
“fisico” in senso stretto ma più idoneo di un esempio “fisico” a chiarire la
diversità dell’approccio. Supponiamo di desiderare che due persone determinate, A e B, si
incontrino. Se operiamo secondo una beta-Fisica siamo costretti, per prima
cosa, a decidere dove e quando dobbiamo volere che si incontrino,
ancorché questi dettagli ci siano indifferenti, e poi dobbiamo condurre
separatamente le due persone nel luogo X al tempo Y, e ciascuno dei due
percorsi può richiedere ulteriori scelte di tempo, di luogo, di modo, di
mezzi, e così via; se uno qualsiasi dei passi intermedi incontra ostacoli non
previsti, l’intero progetto, che forse era possibilissimo se non fossimo
stati costretti a stabilire i dettagli, non giunge a compimento. Con la fisica a base logica, sebbene sulla strada si incontrino
cose ancora più “ostili” delle equazioni differenziali, il procedimento è del
tutto diverso: dobbiamo soltanto “dimostrare” la previsione, e tra i due casi
– la pura osservazione e la determinazione – non ci sono che piccole differenze;
come le entità aritmetiche le nostre previsioni, una volta dimostrate,
preesistevano ab aeterno. Se riusciamo a trovare la “dimostrazione” non possiamo
imbatterci in alcuna legge di Natura che sbarri la strada, perché le leggi di
Natura (in senso beta) non esistono; in generale non conosceremo i dettagli
attraverso i quali il nostro obiettivo si avvera, ma per ipotesi non
ci interessano. Il corso degli eventi, il quale ha senso e può essere osservato
soltanto secondo i criteri di una particolare beta-Fisica, lo stabilisce la
Natura ma, in senso proprio, non esiste: ad un osservatore beta-fisico la
sequenza degli accadimenti potrebbe apparire tortuosa, e talvolta costellata piuttosto
di coincidenze che di nessi causali, ma ciò si dovrebbe attribuire ai suoi
pregiudizi, ossia alle leggi cui ha immaginato che la Natura sia soggetta. Tuttavia non dobbiamo dare un peso eccessivo alle parole che
siamo stati costretti ad utilizzare, perché esse non differiscono dalla
fisica ordinaria tanto grandemente quanto sembra: in effetti anche
l’astronomo, quando ci dà la posizione futura di un pianeta, non fa altro che
“dimostrare” attraverso le sue leggi che la posizione di quel pianeta in quel
momento sarà quella. Parimenti chi vuole raggiungere un certo obiettivo, lo fa in
forza di una “dimostrazione”, formatasi sulla base delle sue cognizioni
fisiche, che il risultato sarà quello: ma in generale non basta osservare, egli
deve “agire” per far sì che le condizioni della sua dimostrazione saranno verificate
opportunamente; ed anche nelle beta-Fisiche ordinarie una volta che
l’obiettivo è stato conseguito esso appare come se fosse sempre stato
“nell’ordine delle cose”. Le parole che abbiamo usato esprimono una semplice
generalizzazione: e come tutte le generalizzazioni pongono in una luce nuova
il loro punto di partenza, che dal centro si sposta verso una posizione
periferica; usiamo qui un linguaggio molto diverso da quello della fisica
ordinaria perché siamo costretti a fare a meno, per quanto ci è concesso
senza un apparato formale, delle Categorie della Fisica. I punti fondamentali, in ogni modo, sono la scomparsa dei passi
intermedi e l’assenza di interdizioni derivanti da leggi fisiche. |