Il testo che segue deve essere molto migliorato dal punto di vista estetico, e dotato di un indice che ne renda più agevole la lettura. Ciò sarà fatto appena possibile.

 

SINTESI ESTREMA

Se qualche lettore gradisce una sintesi estrema, è possibile fornirla subito, purché essa sia un incentivo a migliorare lo studio, e non ad abbandonarlo: sovente il cibo troppo concentrato non ha sapore gradevole e può riuscire indigesto.

Chi preferisce un’esposizione più graduale dovrebbe saltare queste poche righe e seguire il discorso principale sulla crisi metabolica.

CAUSA DELLA CRISI

Il Sistema capitalistico, nel quale viviamo, trae il suo nome dal Capitale, che deve intendersi in senso materiale, non monetario.

Capitale è l’attrezzatura necessaria per esplicare al meglio la produzione in quantità, prezzo, qualità (secondo i criteri del mercato).

Il Capitale consiste di macchine, stabilimenti, scorte di materiali, impianti, infrastrutture, metodologie produttive ed organizzative: il denaro è necessario, ma in quanto mezzo per acquisire tutto ciò.

Due sono i principali problemi legati al Capitale: la sua costruzione, detta generalmente accumulazione, e la sua utilizzazione, che è la produzione vera e propria delle merci consumabili (con la parola merce qui intendiamo indifferentemente beni materiali e servizi).

Quando il capitale è scarso, relativamente al suo mercato, esso opera nelle condizioni soggettive più favorevoli.

Se il suo mercato non è troppo povero, il capitalismo trova spontaneamente il mezzo di mantenere sempre la domanda alquanto superiore all’offerta, e il dislivello domanda-offerta costituisce ciò che nel testo chiameremo motore primario del capitalismo.

Quando il Capitale è scarso esso riesce a stimolare con successo sia la sua accumulazione sia la sua utilizzazione.

Tuttavia il Capitale non può essere costruito, quale una piramide o un’altra opera d’arte, come fine a se stesso: esso è sempre prodotto per essere utilizzato, e quindi, in ultima analisi, deve sempre esistere una domanda finale che richieda, direttamente o anche indirettamente, il suo servizio.

Fino ad anni recenti (per esempio gli anni ’60 o ’70 del novecento) il capitale era scarso dappertutto, e inoltre l’industria, ancorché grande, funzionava ancora con logica prevalentemente manifatturiera.

Un piccolo aumento della produzione induceva sovente una piccola crescita del capitale ed un certo aumento dei posti di lavoro: il Capitale, pur intrinsecamente discontinuo, manifestava molti aspetti di semi-continuità, cosicché i famosissimi moltiplicatori operavano ampiamente.

Con il progredire della tecnologia, e l’ingresso massiccio dell’automazione (dovuto soprattutto, ma non soltanto, alle macchine digitali) gli impianti hanno acquistato capacità produttive molto grandi (anche nelle piccole imprese) e non c’è più, in molti casi, un legame immediato tra la quantità di produzione e la quantità di manodopera.

Il capitale accentuò grandissimamente la sua discontinuità, cosicché un’impresa, per crescere, doveva compiere vistosi salti non solo di quantità ma di qualità, anche metodologica ed organizzativa.

Compiuto il balzo, l’impresa era in grado di affrontare per molto tempo qualsiasi crescita della domanda senza ulteriore necessità di crescere essa stessa.

Quando alla fine degli anni ’80 tutte (o la maggior parte) delle imprese pervennero a tale livello, quasi nessuno dei loro capitali aveva bisogno di crescere nel breve termine.

Ma se il Capitale non è scarso, e quindi non è costretto a crescere, cade il dislivello domanda-offerta, ed il capitalismo definanzia non soltanto l’accumulazione del Capitale futuro, ma anche e soprattutto l’utilizzazione del Capitale disponibile.

La minore utilizzazione rese ancora meno scarsi i capitali esistenti.

La nostra presente crisi è dovuta al corretto funzionamento del Sistema stesso, e sotto l’aspetto logico è strettamente simile a ciò che avviene agli esseri viventi, che raggiunta l’età adulta vedono fermarsi automaticamente i propri meccanismi di crescita.

La crisi metabolica è dovuta alla natura intrinsecamente discontinua del capitale ed alla potenza raggiunta dalle tecnologie produttive, le quali permettono di dotarsi agevolmente di capitali largamente sufficienti rispetto alle capacità di assorbimento (anche assolute) del mercato.

La crisi metabolica appare, fino a dimostrazione del contrario, intrinsecamente irreversibile.

I nostri imprenditori (in tutto il mondo sviluppato) rifiutano le medicine che potrebbero curare (almeno per la parte possibile) i loro mali e non hanno alcun interesse né per il Capitale, né per la produzione, né per l’ambiente né per il popolo né, forse, per se stessi.

Come i bambini di Lucrezio, vogliono soltanto essere sommersi di dolciumi, sotto forma di denaro che non possono e non vogliono utilizzare ma soltanto prestare a qualcun altro (con grande rischio della vita stessa, del Sistema e loro propria).

UN RAGIONAMENTO MOLTO PRIMITIVO

A chiusura di questo riassunto minimo non sarà vano mostrare, con un ragionamento estremamente rozzo ma forse sufficientemente chiaro, ciò che accade ai nostri giorni.

Attualmente il tasso di utilizzo degli impianti produttivi di beni e servizi, in Italia e negli Stati Uniti, è tra il 60% ed il 70%; l’anno scorso era leggermente superiore, ma non di molto.

Ma noi vogliamo porre un’ipotesi esageratamente ottimistica, ed ipotizzare che sia addirittura il 90%, il che è assurdo ma chiarisce meglio la gravità delle cose.

Supponiamo, a questo punto, che qualcuno – lo Stato – immetta nel mercato denaro aggiuntivo, precisamente il 3% del PIL.

Supponiamo che in conseguenza di ciò la domanda di beni e servizi destinata al consumo finale cresca uniformemente in tutti i settori: quindi un gran numero di impianti – quelli che servono la filiera del consumo finale – aumenterà la sua produzione, poniamo al 94%.

Si può dimostrare che i prezzi aumenteranno, nelle opportune ipotesi, di una somma sufficiente a compensare i maggiori costi, pari – supponiamo – allo 0.1% del PIL, mentre il denaro immesso dallo Stato non circola affatto, ma cade per intero in quello che più avanti chiameremo pozzo finanziario.

Proprio l’esiguità di questo 0.1%, figlia della potenza dell’apparato produttivo, vanifica l’efficacia dell’intervento pubblico, e ne dissipa le risorse.

In queste condizioni nessuno programmerà di espandere gli impianti, perché tutti sanno che per mantenere la domanda al medesimo livello lo Stato dovrà – l’anno successivo – immettere nuovamente la medesima somma, chiedendola in prestito allo stesso apparato finanziario al quale l’ha appena regalata: e se ciò non sarà possibile la domanda – lungi dall’aumentare ulteriormente – cadrà.

Pertanto in conseguenza dell’immissione di denaro non accade assolutamente nulla, salvo un modesto aumento del consumo ed un notevole incremento del debito pubblico.

La discontinuità del Capitale fa sì che nessuno può programmare ampliamento alcuno, se non ha davanti un’espansione prevedibilmente stabile verso un carico di lavoro superiore al 100%: se si parte dal 90% l’incremento deve essere almeno dell’11%.

Ma l’elevata disoccupazione e lo stato permanente di crisi inducono gli imprenditori, salvo particolari nicchie, ad aspettarsi l’esatto contrario.

Supponiamo, tuttavia, di essere ancora più fortunati, e ipotizziamo che la domanda si concentri su alcuni impianti, in modo tale che essi debbano lavorare oltre il 100% e pertanto siano indotti ad espandersi.

Siamo incappati, come si dice, in un moltiplicatore: pertanto si genera una domanda di nuovi impianti, la quale farà crescere la domanda complessiva, ed anche gli impianti produttori di impianti vedono crescere il loro utilizzo, poniamo, al 91%; ma anche qui l’incremento non è prevedibilmente stabile e non è sufficiente, e pertanto ci si arresta al primo moltiplicatore.

Se poi i nuovi impianti li compriamo all’Estero – poniamo in Germania – non succede neanche questo: anzi la detta espansione è fonte di deflazione.

In passato, quando il Capitale era dovunque scarso, e di gran lunga meno discontinuo, i moltiplicatori erano molti, e si attivavano a cascata.

Oggi – supposto valido il tasso di utilizzazione del 90% – per disincagliare seriamente il nostro apparato produttivo e cominciare ad indurre un minimo di occupazione occorrerebbe immettere stabilmente denaro dall’esterno per almeno l’11% del PIL: il gradino pari all’10% di capacità inutilizzata degli impianti arresta qualsiasi espansione di entità minore.

Se invece il tasso di utilizzo fosse un più realistico 75%, servirebbe ogni anno immettere denaro per circa il 33% del PIL, e se fossimo – come è attualmente – intorno al 65% servirebbe ogni anno immettere denaro per più del 50% del PIL.

È possibile che queste poche parole, per quanto semplicistiche, possano persuadere il lettore dell’assoluta follia del tentativo di sostenere l’economia attraverso l’indebitamento.

Aggiungiamo che il quadro che emerge dai ragionamenti precisi è ancora peggiore.

 

RIMEDI

Ancora più compatta, ed ancora più difficile da comprendere senza adeguata discussione, è l’enunciazione sintetica dei rimedi, riconducibile a poche parole.

Abbiamo le risorse materiali ed umane necessarie a conseguire un PIL molto più alto dell’attuale? Allora utilizziamole.

Non abbiamo, o forse non esistono, i mezzi finanziari per attivarle? Attiviamole con mezzi non finanziari.

 

 

PARTE I - LA CRISI METABOLICA DEL CAPITALISMO

CAUSE

Per spiegare la crisi ed i suoi rimedi in modo facilmente comprensibile è necessario, nonostante un costante sforzo indirizzato alla brevità, un discorso relativamente lungo.

Il lettore deve rammentare che da considerazioni di questo genere dipende quasi tutto il nostro futuro, ed in larga misura quello delle prossime generazioni: le quali, se non troviamo noi per loro le vie d’uscita, dovranno cercarsele da sole, pagando forse un prezzo troppo più grande.

Non deve sorprendere l’apparente assenza, in tutta la presente trattazione, di quello che si appresta a diventare, anzi che è, il primo ed il maggiore dei problemi economici: la finitezza e la fragilità dell’ambiente.

Dobbiamo affermare, per ora senza prove, che tutto ciò che si propone in queste pagine non è invalidato, anzi è grandemente rafforzato dalla necessità di accordare il benessere con la preservazione o piuttosto con il restauro di un mondo naturale irresponsabilmente vandalizzato.

Qua e là, nel testo, sono presenti alcuni legami che invitano all’approfondimento: ma non è opportuno servirsene durante la prima lettura, quando è preferibile crearsi un quadro generale dell’argomento, libero dai dettagli.

È opportuno che gli approfondimenti siano rinviati ad un momento successivo, quando la mente, avendo veduto il paesaggio generale, può cominciare ad interessarsi all’esame dei particolari.

La parte dedicata alla ricerca delle cause è così suddivisa:

1)    Produzione.

2)    Fattori della produzione.

3)    Risorse scarse.

4)    Antinomia del denaro.

5)    Come funziona il capitalismo.

6)    La discontinuità del capitale.

7)    La crisi metabolica.

8)    Imprese e denaro.

9)    Conclusione.

PRODUZIONE

In questo contesto semplificato possiamo chiamare produzione tutto ciò che, direttamente o indirettamente, è destinato al consumo.

La produzione si presenta in molte varianti, dai beni materiali immediatamente consumabili quali sono i cibi, ai beni durevoli quali i mobili gli elettrodomestici le automobili, a quelli molto durevoli, come le case; sono produzione anche i beni pubblici, quali le strade ed in generale le infrastrutture, oppure i servizi di qualsiasi genere, quali i ristoranti, le scuole, gli ospedali, le telecomunicazioni o, importantissimi, i trasporti.

L’analisi di tutto ciò richiederebbe un’accuratezza che qui non si può mettere in campo, e non sarebbe necessaria alla trattazione.

FATTORI DELLA PRODUZIONE

Con “fattori della produzione” indichiamo tutto ciò che è necessario perché essa sia effettivamente realizzata e raggiunga il suo fine.

Alla produzione sono necessarie, in astratto, le seguenti risorse:

1)    Le materie prime.

2)    Gli strumenti per lavorarle, cui si dà il nome di capitale.

3)    Il lavoro dell’uomo, in quanto necessario alla produzione.

4)    L’uomo, in quanto consumatore finale della produzione.

La produzione complessiva (per esempio quella cui nel linguaggio comune si dà il nome di PIL) risulta dall’opportuna combinazione dei fattori della produzione, quasi fosse una reazione tra loro.

Ai fattori della produzione deve essere affiancato il denaro, perché esso è quasi sempre indispensabile per misurare acquisire e coordinare gli altri fattori: nel nostro contesto il denaro non deve essere considerato un mezzo di produzione, ma uno strumento che sostiene gli scambi indispensabili alla produzione; nella reazione esso svolge il ruolo di catalizzatore.

Pertanto – tranne che nei contesti finanziari che qui non interessano – non si deve mai considerare il denaro come capitale; il capitale reale sono le attrezzature destinate alla produzione: immobili, macchine, scorte di merci, e simili.

Qui si parlerà sempre e soltanto di capitale come strumento materiale della produzione; le rare occasioni nelle quali si deve alludere ad un capitale in forma monetaria saranno segnalate esplicitamente.

RISORSE SCARSE

Quando in una reazione uno dei reagenti è proporzionalmente scarso, si forma un collo di bottiglia atto a limitare l’intera reazione, la quale lascia inutilizzati tutti gli altri reagenti, per abbondanti ed importanti che siano: relativamente parlando, essi divengono sovrabbondanti e persino superflui.

Per esempio se abbiamo moltissimo ossigeno e pochissimo idrogeno, la produzione di acqua sarà minima, e la gran massa dell’ossigeno rimarrà inutilizzata cosicché (dal punto di vista degli assetati) sarà ritenuta sovrabbondante o superflua.

Sarebbe interessante, ma qui non è possibile, studiare singolarmente gli effetti della relativa scarsità di ciascuno dei fattori; ma qui dobbiamo occuparci precipuamente, per l’esame della situazione di crisi, della scarsità del denaro.

Quando il fattore limitante della produzione è il denaro divengono relativamente sovrabbondanti, in varia misura, tutti i fattori della produzione:

1)      Diminuisce l’utilizzo di materie prime

2)      Il capitale, sotto forma di impianti, rimane parzialmente inutilizzato, in quanto una quota della loro possibile produzione, quella non vendibile a causa della scarsità di denaro, non può essere prodotta.

3)      Anche gli uomini, intesi come lavoratori, divengono sovrabbondanti: si formano dunque le schiere dei disoccupati, che l’economia vede come una merce inutile.

4)      I consumatori, per parte loro, diventano anch’essi una risorsa inutilizzata, secondo la loro peculiarità: significa che non possono consumare, né sostenere altrimenti lo sviluppo del Sistema; anzi talvolta sono costretti a languire nella miseria.

ANTINOMIA DEL DENARO

Quando la risorsa scarsa è il denaro potrebbe sembrare agevole produrre la quantità mancante, soprattutto quando esso è rappresentato da banconote o da entità ancora più rarefatte.

Per certi versi ciò è vero, e infatti lo si fa spesso, e molto più di quanto si dovrebbe.

Tuttavia l’esperienza dimostra che nel caso generale l’aumento della massa del denaro – o meglio della sua quantità di moto – produce una correlata diminuzione del suo valore, persino quando la moneta è metallica e correttamente riscontrata dall’oro.

Tutte le merci tendono a svalutarsi quando possono essere prodotte con larghezza, ma in genere trovano un limite fisico nella loro utilità: ad esempio un kilogrammo di grano – o di riso – ogni giorno per ciascun abitante della Terra sarebbe troppo, per quanto basso possa essere il prezzo.

Non così accade per il denaro: potremmo stampare in massa – ed è già accaduto – singole banconote da 100 miliardi di marchi senza aver risolto il problema della scarsità del denaro.

Questo fenomeno costituisce l’antinomia del denaro: se esso aumenta di massa perde spesso proporzionalmente di pregio, fino a quando torna a conquistarsi la sua posizione di scarsità relativa.

Ciò rende relativamente poco interessante l’ipotesi della produzione immediata di denaro.

Pertanto, in questo nostro schema semplificato, dovremo supporre che il denaro sia intrinsecamente scarso, e che molte tra le risorse disponibili risultino inutilizzabili: alla somma della loro produzione potenziale, molto elevata, daremo il nome di produzione inespressa.

La scarsità di denaro si manifesta in misura molto variabile nell’economia, nei tempi antichi e nei moderni, in funzione della quantità di moneta e soprattutto della sua velocità di circolazione; in particolare nelle economie capitalistiche si presentano grandissime oscillazioni, tra minimi nei quali la scarsità di denaro quasi non si avverte e massimi nei quali le risorse inutilizzate sono grandiose, e la produzione inespressa è una frazione vistosissima del PIL.

Ma in ogni caso la quota di produzione impedita dall’antinomia del denaro è enormemente grande, e la qualità della vita nel Paese interessato ne risente sostanzialmente.

In ultima analisi, il problema economico generale sarà risolto non appena la ricerca scientifica sarà riuscita ad avere la meglio, nella forma tecnicamente opportuna, sull’antinomia del denaro: la quale, presto o tardi, dovrà arrendersi al progresso della scienza.

COME FUNZIONA IL CAPITALISMO

Lo scopo dichiarato dell’impresa capitalistica è di immettere denaro nel mercato – si dice investirlo – allo scopo di ricavarne più denaro.

Pertanto l’impresa capitalistica si pone come fine ultimo di sottrarre denaro al mercato: ai nostri giorni, per ragioni indipendenti dalla sua volontà esplicita, nel mondo sviluppato essa è molto vicina a realizzarlo.

Dobbiamo studiare con grande attenzione come opera l’interazione tra impresa, denaro, produzione e mercato, perché qui è la chiave di tutto.

Nel testo dovremo usare – purtroppo – qualche termine particolare: chiamiamo microeconomico tutto ciò che avviene al livello della singola impresa, macroeconomico ciò che avviene nell’intero mercato: in qualche modo un fenomeno macroeconomico è la somma algebrica – o vettoriale – dei corrispondenti fatti microeconomici che si svolgono in quel mercato.

NASCITA DI UNA NUOVA IMPRESA

Prenderemo ad esempio un’ordinaria impresa manifatturiera, ma il ragionamento è universalmente valido per tutti i tipi di attività.

All’inizio, quando nasce, l’impresa – dotata di una sufficiente quantità di denaro, ossia di un adeguato capitale in forma monetaria – acquista sul mercato quanto è necessario alla sua attività: immobili, macchine, materie prime, lavoro umano; così facendo converte il capitale monetario in capitale reale.

Essa genera una nuova capacità produttiva, cioè compie – a livello microeconomico – un investimento espansivo.

Sottopone poi le merci acquistate alle opportune lavorazioni e le vende sul mercato.

Nel prezzo di vendita di dette merci è computato il valore di tutto ciò che è stato consumato per produrle (materiali, lavoro, energia) ed anche una quota del costo del cosiddetto capitale fisso (immobili, macchine, impianti) in modo da compensarne il progressivo logoramento: per semplicità supporremo che tale quota sia uniformemente del 10%, per tutti i generi di capitale fisso.

È come se il capitale fisso, comprato tutto insieme il primo anno, fosse rivenduto a rate in quello e nei nove anni successivi; questo comportamento, di comprare subito per contanti e rivendere a rate a grande distanza di tempo, sostiene la domanda in misura più grande di quanto incrementi l’offerta, e così facendo mette in moto quello che è il motore primario del capitalismo.

Il prezzo di vendita delle merci contiene inoltre una componente che compensa i rischi inerenti all’attività, e soprattutto un profitto, che costituisce la motivazione ed il fine dell’attività stessa; il profitto misura la scarsità relativa della merce prodotta ed è tanto maggiore quanto più grande è la differenza tra la quantità disponibile e la domanda potenziale al prezzo di costo.

Nel primo anno l’impresa da una parte avrà speso quanto occorre per acquistare tutto il capitale fisso e tutte le risorse mobili utilizzate; dall’altra parte avrà incassato tutti i costi delle risorse mobili, una quota del capitale fisso, ed il profitto.

In queste circostanze la quantità di denaro spesa nel mercato è notevolmente più grande di quella ricavata: l’impresa ha realmente finanziato o fertilizzato il mercato, ed ha contribuito all’espansione complessiva dell’attività economica.

CONTINUAZIONE DELL’ATTIVITA’

Molto diverso è ciò che accade nei nove anni successivi: l’impresa spenderà soltanto per acquistare le risorse mobili, ma i ricavi conterranno, oltre ai costi mobili, anche la quota del 10% del capitale fisso ed il profitto.

Dal secondo anno in avanti l’impresa assorbe dal mercato più denaro di quanto ne spende, in maniera da recuperare progressivamente in forma monetaria l’investimento di capitale fisso ed il proprio profitto.

Questo processo si chiama disinvestimento, e di per sé è perfettamente fisiologico.

Nel corso di tale processo essa definanzia – o defertilizza – il mercato in misura maggiore di quanto lo avesse prima fertilizzato.

INVESTIMENTI DI SOSTITUZIONE

Trascorsi 10 anni, l’impresa (servendosi del denaro accumulato a tale scopo negli anni precedenti) acquista sul mercato il nuovo capitale fisso destinato a sostituire quello che si è ormai esaurito, e così dà inizio ad un nuovo ciclo.

Questo secondo investimento, tuttavia, non deve essere considerato espansivo, ma sostitutivo: esso si limita a conservare la capacità produttiva generata dall’investimento iniziale, ma non ne crea di nuova; se esso mancasse ci sarebbe una caduta netta della capacità produttiva, e sarebbe disinvestimento netto.

La discriminante principale è che il denaro immesso nel mercato in corrispondenza a questo investimento non giunge dall’esterno del mercato o almeno dell’impresa, ma è denaro incluso nel prezzo dei prodotti venduti negli anni precedenti, sottratto al mercato ed idealmente accumulato dall’impresa allo scopo di sostituire il capitale venuto a logorarsi.

Inoltre durante i 10 anni, se il tempo non è trascorso invano, ci sarà stato un progresso tecnico nella produzione del capitale fisso: è ragionevole credere che il nuovo capitale, ad esempio una macchina, a parità di costo sia molto più efficiente della precedente, e pertanto sia in grado di produrre molto di più e con migliore qualità; spesso, essa costa anche molto meno.

Questo genere di fenomeni si è molto rafforzato con i progressi dell’elettronica e l’affermarsi capillare e pressoché universale del controllo numerico: ne deriva Capitale sempre più versatile e sempre meno costoso.

Pertanto l’impresa vede crescere – talvolta grandemente – la sua capacità produttiva attraverso la semplice sostituzione degli impianti logorati, senza operare alcun investimento espansivo.

Come vedremo, ciò è importantissimo ai fini della genesi e dell’ampliarsi dello stato di crisi.

La politica contemporanea non mostra di distinguere troppo chiaramente le due forme di investimento, quella espansiva e quella sostitutiva, e ciò dà credito a millantati investimenti che altro non sono se non mancati disinvestimenti.

IL PUNTO DI VISTA MACROECONOMICO

Prima di proseguire, occorre guardare alla nascita della nuova impresa sotto il profilo macroeconomico, il solo che dovrebbe interessare la politica: se l’avvio della nuova attività corrisponde ad un effettivo ampliamento del mercato delle merci da essa prodotte, l’investimento rimane espansivo anche al livello macroeconomico.

Se invece la nuova impresa causa la distruzione di altre imprese, o la riduzione della loro produzione, e dunque induce disinvestimento e disoccupazione, l’effetto macroeconomico è la somma algebrica dei due effetti, e potrebbe essere negativo.

L’investimento nella nuova impresa, se portasse con sé una tecnologia più avanzata di quella corrente, determinerebbe un forte miglioramento dell’efficienza di un certo tipo di produzione, ma contemporaneamente avrebbe un effetto deprimente sul mercato, simile a quello di un disinvestimento netto.

Pertanto non è saggio associare automaticamente il concetto di investimento con sviluppo ed occupazione, perché in generale, nel moderno mondo sviluppato, avviene l’esatto contrario.

L’incremento di efficienza deve essere sempre incoraggiato, ma come risultato ci si deve aspettare – senza stupirsene – esattamente disinvestimento netto e disoccupazione, i quali debbono essere curati per altra strada.

IL CICLO VITALE DELL’IMPRESA

In astratto la vita dell’impresa è composta di due fasi: una di espansione, che chiamiamo fase alfa, o destra, o di accumulazione del Capitale, e l’altra di esercizio, che chiamiamo fase beta, o sinistra, o di utilizzazione del Capitale.

Da osservare che la fase alfa implica sempre una successiva fase beta, mentre non è vero il contrario: questo è il fatto storico fondamentale degli ultimi secoli e, in una certa misura, la chiave di lettura del futuro.

Nell’impresa che abbiamo assunto come esempio, la fase alfa si verifica soltanto il primo anno: dopo, l’impresa è permanentemente in fase beta a meno che, come vedremo subito, non si espanda.

Durante la fase alfa l’impresa immette nel mercato più denaro di quanto ne estragga, mentre il contrario avviene durante la fase beta; inoltre la somma algebrica delle due fasi, in termini monetari, è negativa.

Affinché l’equilibrio del Sistema sia possibile, è necessario che in ogni momento sia presente una massa di imprese in fase alfa che immetta nel mercato più denaro netto della somma dei profitti non investiti delle imprese in fase beta, o che accadano fenomeni equivalenti.

Poiché nel mercato libero i vari attori non sono esplicitamente coordinati, non è detto che la necessaria quantità di investimento alfa si presenti puntualmente: il percorso del Sistema Capitalistico è dunque punteggiato di crisi periodiche, che sono crisi di sincronizzazione, di liquidità, di fiducia, e così via.

Esse tendono a risolversi spontaneamente, o con qualche supporto dell’infrastruttura finanziaria o dell’autorità amministrativa.

Profondamente diverso è il caso della crisi contemporanea, che appare universale (nel suo campo d’azione) ed irreversibile.

LA DISCONTINUITA’ DEL CAPITALE

Un’impresa in fase beta può tornare in fase alfa non appena si espande, cioè quando genera nuova attività produttiva attraverso un nuovo investimento.

Ciò può avvenire con il mezzo dei profitti da essa stessa accumulati, oppure con mezzi monetari ottenuti dal mercato attraverso il credito; tuttavia qui si può fare astrazione dai fenomeni finanziari, che debbono ritenersi completamente secondari: essi sono sempre subordinati alle leggi economiche che governano il Sistema, e possono bensì agevolarle o ostacolarle, ma non cambiarle.

Quando un’impresa si espande, ripete pressoché esattamente il suo ciclo di nascita, ed attraversa una fase alfa seguita a sua volta da un permanente stato beta.

Le imprese, quando nascono, sono tendenzialmente molto piccole; non tanto però da non potere affrontare il mercato: debbono garantire che le merci prodotte abbiano prezzi e qualità competitive rispetto ai loro concorrenti, il che impone loro, in funzione del settore di attività, una dimensione minima.

A maggior ragione, quando si espandono non possono farlo per passi troppo piccoli: ad esempio non possono acquistare di momento in momento piccole frazioni di macchine, o centimetri quadrati di stabilimento.

È necessario che l’attività produttiva risultante dall’espansione sia non meno efficiente di prima, e che esista una corretta proporzione tra le varie componenti della potenza produttiva, che la logistica di stabilimento sia adeguata, che la maggiore scala della produzione autorizzi metodologie più efficaci, le quali possono essere molto diverse da quelle adottate precedentemente.

L’osservazione diretta dei fatti ed il ragionamento ci mostrano che le cose avvengono esattamente così: l’impresa si espande per passi successivi, ciascuno dei quali implica un forte aumento della capacità produttiva, un minore utilizzo specifico della manodopera, e sovente l’ampliamento della produzione con l’aggiunta di nuovi prodotti.

L’osservazione diretta delle imprese così come sono permette di non insistere troppo nel rinforzare l’argomentazione: vediamo nascere le imprese su scala appropriata, e le vediamo proseguire a grandi balzi tra brevi fasi alfa e lunghe fasi beta, sino a quando esse raggiungono una relativa stazionarietà.

 

Nel grafico la linea verde fornisce un esempio di crescita (nel tempo) della capacità produttiva di un’impresa, ed essa mostra, in particolare, che tale crescita segue una linea a gradini, ognuno dei quali corrisponde agli investimenti alfa, o nuovi investimenti, dell’impresa.

La linea rossa disegna i corrispondenti incrementi del capitale, il quale cresce secondo lo stesso principio ma su un percorso molto meno ripido rispetto al diagramma della crescita.

È importante osservare che i gradini della crescita si fanno sempre più alti, ciascuno rispetto al precedente, per vari fattori di scala, di efficienza, di progresso tecnico nella produzione del capitale e nella sua produttività.

L’impresa ha necessità che il suo investimento abbia durata non inferiore al suo tempo di ammortamento, e pertanto esso (in generale) deve essere tale da tollerare l’espansione della sua produzione per un periodo adeguatamente lungo.

Non è invece necessario che i gradini di espansione del capitale siano progressivamente più alti.

L’altezza di un gradino verde indica di quanto debbono crescere le vendite (o, come si dice, la domanda) affinché la nuova capacità produttiva sia satura, e pertanto l’impresa sia sollecitata ad una nuova espansione.

È ragionevole, e spesso accade, che un gradino alto sia superato dopo un tempo più lungo di uno meno alto, ciò che è indicato dalla crescente lunghezza dei gradini; al limite, se il livello atteso di domanda non arriva mai, il gradino sarà infinitamente lungo: si dice che è stata raggiunta la soglia beta di quell’impresa.

Vediamo che lo scatto avviene poco prima o poco dopo che la linea blu, la quale indica la produzione realmente effettuata, tocchi la linea verde orizzontale, che indica il livello massimo della produzione possibile in quel momento: in ogni istante, il dislivello tra la linea verde e quella blu è ciò che chiamiamo avanzo beta, la differenza tra la capacità produttiva disponibile e la produzione effettiva, ossia la produzione che può essere prodotta ma non si produce.

L’avanzo beta, subito dopo la fase alfa, è pari all’intera capacità produttiva addizionale, e si riduce col tempo: quando esso arriva a zero, o meglio quando ci sia ragionevole aspettativa che esso si avvicini a zero, l’impresa decide, di solito, di avviare una nuova fase alfa.

La fase alfa innalza la capacità produttiva dell’impresa, ma non la sua produzione effettiva: questa cresce gradualmente negli anni successivi, fino a quando l’aspettativa di una domanda eccedente la detta capacità crea la premessa di una nuova fase alfa.

Durante la fase beta non c’è – in genere – stagnazione: il prodotto dell’impresa, il valore del fatturato ed i relativi profitti crescono considerevolmente e con essi i PIL nazionali.

Quanto più grande è l’avanzo beta iniziale, ossia quanto più è stato grande il salto di capacità produttiva compiuto nella precedente fase alfa, tanto maggiore sarà l’incremento di domanda necessario per saturare gli impianti, in guisa da indurre la successiva fase alfa.

L’avanzo beta diminuisce con l’aumentare della domanda acquisita dall’impresa, ma aumenta quando la periodica sostituzione del capitale o altri incrementi di efficienza (per esempio organizzativi) rendono più agevole la produzione.

Queste considerazioni, condotte con molta brevità e forse superficialità, e con qualche intenzionale ripetizione, danno un’idea di ciò che si chiama discontinuità del Capitale.

La discontinuità del Capitale è la caratteristica più essenziale del Capitalismo: persino la possibilità logica e l’esistenza pratica del profitto verrebbero meno, se il Capitale fosse perfettamente continuo.

Inoltre l’avanzo beta sarebbe zero, e molti problemi o non ci sarebbero affatto oppure, più probabilmente, assumerebbero una forma completamente diversa.

LA CRISI METABOLICA

Lo sviluppo indusse tutte le imprese a potenziarsi energicamente, attraverso la grande modernizzazione a cavallo tra gli anni ’70 ed ’80: la grandiosa fase alfa di quel tempo generò in Occidente un benessere senza precedenti e fu una causa importante della caduta dell’Unione Sovietica.

Quando la maggior parte degli investimenti fu realizzata, vennero ad esistere (tutte contemporaneamente) una quantità prevalente di imprese beta ad alto avanzo, per le quali la successiva fase alfa, in base a ragionevoli previsioni sull’andamento del mercato, era molto lontana.

Sappiamo già che questa massa di imprese beta sottrae denaro al mercato o come minimo, come vedremo, non ne aggiunge; inoltre la conseguente scarsità di imprese alfa non fertilizza sufficientemente il mercato, cosicché la domanda non si accresce.

Non deve sorprendere che vistose crisi facciano spesso seguito a periodi di grande prosperità relativa, correlati a fasi di espansione.

Nei Sistemi capitalistici accade sovente di costruire capitale che poi non si riesce ad utilizzare subito adeguatamente: la causa sta soprattutto nella ridotta fertilizzazione del mercato determinata dalla conclusione o dal ridimensionamento della fase espansiva.

A partire dalla fine degli anni ’80 le imprese beta rimangono tali a tempo indeterminato: il miglioramento spontaneo della produttività induce – col tempo – riduzioni dell’occupazione e dei salari, con conseguente diminuzione della domanda, cosicché l’avanzo beta si ingrandisce ulteriormente.

L’ESPLOSIONE DEI CONSUMI DI LUSSO

La massa delle imprese beta continua a utilizzare la propria grande capacità produttiva, e la presenza di una robusta domanda (ancorché essa non si accresca) permette loro di realizzare i normali profitti.

Tuttavia nessuna di esse ha necessità di investimenti espansivi, cosicché la domanda di denaro delle poche imprese alfa non è sufficiente per investire espansivamente tali profitti, ad esempio attraverso le borse o il sistema bancario.

Si crea una massa grandissima di denaro non direttamente investibile, la quale a medio termine induce la trasformazione del Capitalismo industriale in Capitalismo finanziario: quest’ultimo però, ai nostri giorni, è ormai una sorta di piramide capovolta, la cui stabilità appare sommamente critica.

Naturalmente le cabine di prima classe di una nave che affonda non sono troppo più confortevoli di quelle di terza, e pertanto queste questioni arriveranno tutte, per amore o per forza, ad una soluzione.

È preferibile forse una sobria cabina di prima classe su una nave che tiene il mare meravigliosamente, piuttosto che una prima classe sfarzosamente sontuosa su una nave già a mezzo sommersa.

Intanto, come in circostanze simili è avvenuto molte volte in passato, nella storia recente ed in quella antica, il denaro non investibile si è parzialmente convertito in consumi di lusso, e c’è stata una grande esplosione del settore del lusso in tutti i Paesi coinvolti nella crisi.

Un fenomeno del tutto simile, che anch’esso può essere attribuito alla presenza di masse di denaro non investibile, è la forte lievitazione delle retribuzioni dei dirigenti.

LA CONTRAZIONE DEL MERCATO

A causa della carenza di imprese alfa, le imprese beta cominciano a trovare difficoltà a ricavare profitti in un contesto nel quale la capacità di offerta supera largamente la domanda.

Se le imprese si propongono di prelevare dal mercato più denaro di quanto ne spendano, e riescono nel loro intento, non qualcuna isolatamente ma tutte insieme o quasi tutte, giunge il momento che il denaro mancante toglierà brillantezza alla domanda.

Esattamente questo problema, di non riuscire a vendere profittevolmente, fu sottoposto negli anni ’80 dalle imprese USA al presidente Reagan.

La risposta politica fu (nel quadro ideologico della cosiddetta “economia dell’elicottero”) la trasformazione, in pochissimi anni, degli Stati Uniti d’America da maggior Paese creditore del mondo a maggior debitore.

La strada del debito pubblico – o, a maggior ragione, privato – è un vicolo cieco: l’avanzo beta è troppo più grande di qualsiasi disavanzo pubblico o privato che si possa sperare o anche solo immaginare di sostenere, persino in tempo di guerra; e questo lo vediamo ogni giorno.

Lo spettacolo dell’Italia, che (senza dubbio costretta dalla storia pregressa e dalle circostanze) va a perorare in Europa non già il diritto a produrre più e meglio, ma il diritto ad indebitarsi ulteriormente e senza sbocco, è molto emblematico, a tratti comico, nel retrogusto triste.

Europa composta a sua volta di Popoli indebitati – tutti – oltre ogni ragionevole limite, che non dovrebbero poter prestare né regalare, in senso proprio, nulla a nessuno.

Ma tutti, indistintamente, rivendicano il diritto ad indebitarsi, più o meno come il malato che rifiuta tutte le cure senza nemmeno sapere se siano piacevoli o dolorose, ma intanto esige il diritto ad una sempre più frequente dose di morfina.

Non esiste alcun livello di spesa pubblica (o privata) che possa ricondurci alla crescita genuina, ossia alla crescita alfa; tuttavia la spesa pubblica può innalzare il PIL attraverso la più debole crescita beta, la quale consiste nel diminuire alquanto l’avanzo beta (senza generare investimenti alfa).

Dobbiamo cercare di studiare l’evoluzione della crisi in due differenti ipotesi:

1)    Il Sistema continua a rimanere nel libero mercato, e ne segue le leggi.

2)    Si decide di alterare strutturalmente il mercato, con mezzi politici.

LA CRISI METABOLICA NEL LIBERO MERCATO

Possiamo immaginare di trovarci in un mercato completamente beta, dal quale le imprese debbono difendersi da sole.

La difficoltà di vendere profittevolmente può indurle, pro tempore, a vendere i loro prodotti al costo; in questo caso il Sistema entrerebbe in uno stato stazionario.

Esso sarebbe soggetto soltanto ad una lenta contrazione dovuta al progresso tecnico, che porterebbe ad una certa erosione dell’occupazione con la relativa riduzione della domanda.

Ma i costi scenderebbero nella stessa misura, cosicché lo stato stazionario potrebbe continuare per molto tempo, in un mercato che progressivamente si riduce e si circonda di miseria.

La diminuzione della produzione fa crescere ulteriormente l’avanzo beta, ed il capitale disponibile è più che mai sufficiente.

Un siffatto schema non sembra concedere vie d’uscita, perché innovazioni tecniche atte a generare una fase alfa di potenza proporzionata alla dimensione del Sistema appaiono profondamente improbabili.

Col tempo, tuttavia, molte imprese non avrebbero trovato ragionevole lavorare indefinitamente in pareggio, e sarebbero tornate agli utili col semplice accorgimento di accettare soltanto ordini atti a garantire un certo profitto minimo.

Se l’orientamento fosse stato largamente condiviso, una sorta di convenzione (simile ad un cartello tacito, o implicito) avrebbe fatto attestare i profitti ad un certo livello abbastanza uniforme, vicino al livello al di sotto del quale il capitalista medio non vedrebbe la ragione di lavorare e di rischiare.

In corrispondenza di questa scelta la produzione si sarebbe ridotta progressivamente anno dopo anno; ma se in più le imprese o gli imprenditori avessero avuto l’accortezza di spendere per intero e subito nel mercato i profitti così conquistati, si sarebbe avuta un’altra variante di capitalismo allo stato stazionario, non troppo diversa dalla precedente.

In tutti i casi, un mercato beta lasciato a se stesso si contrae lentamente, in misura più o meno proporzionale al progresso tecnico.

Ciò che qui è stato descritto in maniera divulgativa, può essere formulato anche sotto forma di dimostrazione matematica, associata naturalmente alle opportune ipotesi, le quali sono largamente verificate nei casi pratici che interessa trattare.

“A meno che non sia in corso un’evoluzione universale e rivoluzionaria delle metodologie produttive, ogni apparato capitalistico, raggiunto un certo livello di forza produttiva, collassa lentamente su se stesso con velocità più che proporzionale all’efficienza de-occupazionale del progresso tecnico, anche in caso di consistenti avanzi nel commercio estero”.

Non è forse del tutto inutile ripetere la parte essenziale del ragionamento: se tutti sono potentemente attrezzati, l’espansione ulteriore può avvenire soltanto a causa di un grandissimo accrescimento della domanda; ma la domanda si accresce soltanto in proporzione degli investimenti espansivi, e pertanto il circolo è chiuso.

Tutto ciò non è soggetto alla volubilità delle passioni, né alle specifiche attrazioni o repulsioni che ciascuno può avere verso la realtà appena descritta; dunque o le cose stanno così, o si trova qualche errore nelle argomentazioni appena esposte.

Naturalmente, come si vedrà subito, il quadro è alterato in qualche misura dalle iniezioni di denaro pubblico, che certe volte possono apparire simili agli avanzi da esportazione, pur essendo di gran lunga meno salutari.

Ma se la dimensione non è sufficiente, la crescita alfa è comunque impossibile.

Forse, nel nostro mondo, solo la Germania ha avanzi da esportazioni sufficienti a consentire, ancora per qualche tempo, una modesta crescita alfa.

LA CRISI METABOLICA NEL MERCATO ALTERATO

Nella convinzione e quasi nella certezza che le circostanze avverse fossero transitorie (perché così si preferiva credere), dato per scontato che il Capitalismo non pare compatibile con una sopravvivenza stentata e cronica, si finì con l’imboccare (in tutto il mondo sviluppato) la strada che ci ha condotto al presente.

La classe politica ha deciso – su scala mondiale – di opporre una terapia vecchia ad una malattia nuova, tentando di simulare la domanda alfa mancante attraverso il deficit pubblico; ma siccome i gradini da superare sono troppo alti, lo stratagemma non funziona.

Si stimola il mercato con l’immissione in deficit di denaro pubblico: ma a differenza del keynesismo, che almeno formalmente garantiva la temporaneità e la correttezza contabile dell’operazione, associate all’esistenza fisica delle opere pubbliche compiute, in un contesto reale di sviluppo ed in presenza reale di moltiplicatori, qui l’immissione di denaro appare sostanzialmente immotivata e soprattutto irreversibile.

Infatti se si tentasse di rimborsare una quota del prestito con una parziale estrazione del denaro immesso, il risultato sarebbe una recessione di ampiezza maggiore della crescita indotta dalla precedente immissione.

Sebbene non sia questo il luogo deputato a siffatte analisi, ciò che si fa oggi è sostanzialmente diverso da ogni forma di debito pubblico del passato, che finanziava sempre qualcosa di esterno al mercato (ad esempio guerre, o anche opere pubbliche) ma non il mercato stesso a fini di consumo.

Il risultato è una totale sconfessione del mercato libero, che con un drogaggio cronico di siffatta grandezza cessa di essere tale, e si avvicina al tanto aborrito mercato socialista il quale, proprio mentre si esalta il non intervento dello Stato, viene realizzato in una delle sue forme più irragionevoli, nel quale le difficoltà sono occultate e nulla si mantiene integro.

Gli effetti secondari sono ben noti: si è dato origine ad un debito pubblico incolmabile e sempre crescente, si sono amplificate grandissimamente le diseguaglianze (che sono appunto soprattutto conseguenze del debito pubblico), e si son fatte nascere, nell’intero Occidente, Repubbliche fondate sul debito, anziché sul lavoro.

Un gruppo di Stati quasi non più Stati: disposti ad accettare il declino e l’inevitabile crollo successivo, e persino una futura, pressoché inevitabile subordinazione alle due grandi Potenze emergenti piuttosto che a riconoscere ed affrontare la realtà delle cose.

Per inciso, l’attuale Presidenza degli Stati Uniti d’America esprime in sostanza un modo assai trasversale, e psicanaliticamente contorto, di arrendersi alla Cina senza lottare.

Per di più anche negli USA odierni, mentre si conclama lo Stato minimo, ogni cosa sembra potersi e doversi svolgere soltanto attraverso l’azione dello Stato.

Il denaro immesso artificialmente attraverso il debito pubblico consegue agevolmente lo scopo di creare un certo dislivello domanda-offerta, ma non crea, ovviamente, alcuna domanda addizionale di Capitale: una domanda alfa può nascere soltanto dalla saturazione, almeno in qualche settore, dell’avanzo beta, ciò che richiederebbe interventi superiori di almeno un ordine di grandezza, cioè un disavanzo “bellico” di almeno il 30% del PIL.

Ma quand’anche ciò fosse possibile, ed accadesse, il risultato potrebbe essere, al massimo, di aggiungere un gradino alle scale che abbiamo disegnato: il problema non sarebbe risolto, ma soltanto spostato (identico a se stesso, ma su scala maggiore) verso il futuro.

Nelle nostre realtà il denaro pubblico produce crescita (di PIL) attraverso lo stimolo della sola domanda beta, con la corrispondente riduzione dell’avanzo beta: nessuna nuova occupazione, quasi nessun costo di produzione.

Come si vede agevolmente nella pratica, esso non circola: non essendo una domanda di capitale ma di merci di consumo finale, esso genera un piccolo aumento della produzione (che si traduce, formalmente, in una crescita del PIL), una piccola forma di aumento di prezzi (che non si può propriamente chiamare inflazione) a copertura dei maggiori costi, ed un incremento degli utili delle imprese pari all’intera somma immessa.

La quale va a confluire nel grande bacino della ricchezza finanziaria nominale, pronta ad essere nuovamente prestata, con il carico degli interessi, alle entità statali che essa è riuscita a subordinarsi, con la conseguente ripetizione del ciclo (su scala progressivamente più grande).

Per questa via, sotto le specie del mercato libero, si mette in atto una sorta di apoteosi dell’assistenzialismo, deprecata dai medesimi che ne beneficiano.

Un siffatto meccanismo potrebbe funzionare ad infinitum, con l’accumulazione di una massa potenzialmente illimitata di denaro “morale” presso pochi soggetti, se la stabilità della realtà materiale non si ribellasse.

IMPRESE E DENARO

Siccome la domanda di capitale alfa è pressoché nulla, il mancato sviluppo non dipende dalla mancata disponibilità di denaro presso gli imprenditori; se essi avessero più denaro, non potrebbero usarlo per nuovi investimenti, né certamente lo userebbero, cosicché esso cadrebbe nel pozzo finanziario.

Il denaro, in generale, è una misura della produzione effettuata: manca il denaro perché non si produce, ma non è vero che non si produce perché manca il denaro.

Come abbiamo visto le cause non sono finanziarie, ma fisiche; e comunque, se il denaro manca, non manca agli imprenditori ma ai consumatori e non basta dargliene (con o senza elicottero) per superare l’impasse.

Abbiamo un circolo vizioso apparentemente invincibile: non si produce perché non c’è abbastanza denaro, ed il denaro non circola, ossia manca, perché non si è prodotto.

Questo circolo vizioso negativo (denaro-produzione-denaro) non si può risolvere spontaneamente in un contesto beta, come abbiamo visto: di conseguenza deve essere spezzato, e più avanti mostreremo un metodo ragionevolmente potente.

È vero che le imprese debbono essere aiutate a conseguire una sufficiente liquidità di funzionamento, ma a ciò non si frappone la volontà politica di questo o di quello: la potenza avversa è l’antinomia del denaro, talvolta più intensa, talvolta meno, a seconda dei luoghi e dei tempi, ma sempre esiziale.

Far sì che le imprese possano avere sempre una sufficiente disponibilità di denaro per i loro pagamenti, senza controindicazioni, dipende più dalla digitalizzazione profonda che dalle decisioni politiche.

Ma se dessimo alle imprese una sufficiente quantità di denaro in maniera naïf (come una soverchiante necessità ci ha appena costretti a fare) esse la perderebbero subito a causa dell’inflazione e del mercato, e cadrebbe subito nel citato pozzo finanziario.

Le tesi economiche di von Hayek (il quale sosteneva, coerentemente, che l’economia non è una scienza) erano già anacronistiche quando furono enunciate: essenzialmente, si proponevano di riportare il Capitalismo ai tempi aurei precedenti non questa crisi, beninteso, ma quella del 1929.

Ancora più anacronistiche erano quando, esattamente con tale intento, furono applicate da Thatcher e Reagan, con gli esiti che abbiamo sotto gli occhi.

Infinitamente più anacronistiche sono oggi, sebbene di tanto in tanto siano annunziate con fervore forse più mistico che scientifico, come se abbassare le tasse e ridurre la spesa pubblica fosse un’idea nuova ed un rimedio sicuro per le difficoltà nelle quali il Sistema si dibatte.

Per sue cause proprie il mercato, oggi, non funziona, non perché non siano accessibili tutti i capitali monetari che possano servire alle imprese per espandersi, né perché qualcuno gli impedisca di funzionare come dovrebbe: anzi senza la bombola d’ossigeno del debito pubblico finirebbe certamente asfissiato dal suo stesso metabolismo.

Tuttavia il fanatismo dello “Stato minimo” danneggia tutti, nel nostro mondo sviluppato, a cominciare dagli Stati Uniti d’America, che a causa di tale ostinazione stanno perdendo l’egemonia.

Voler disconoscere ad ogni costo che alcuni gravissimi problemi possono essere risolti soltanto attraverso l’esercizio massiccio della sovranità porta ad un incessante degrado del Sistema.

E siccome il mercato beta non risponde, perché abbiamo dimostrato che non può, si ricorre comunque (contro gli stessi principi professati) alla potenza dello Stato, ma attraverso il binario morto del debito pubblico.

CONCLUSIONE

Da qualsiasi angolo si voglia guardare ai fatti, la genesi della crisi è la medesima: il capitale non è qualcosa che si possa costruire come fine a sé stesso.

Esso serve ad un solo scopo: essere utilizzato, direttamente o mediatamente, per produrre merci di consumo a fronte delle quali sia presente, o almeno ci si possa razionalmente aspettare, una corrispondente domanda.

Se il capitale disponibile (a livello mondiale) è sufficiente a coprire in modo adeguato, in qualità e quantità, qualsiasi nostra domanda presente o prevedibile a breve, nessuno si indirizzerà alla costruzione di nuovo capitale nel nostro mercato.

Gli investimenti innovativi, abbiamo visto, sono necessari e anzi indispensabili, ma hanno quasi sempre effetto depressivo: tranne che creino ex novo un mercato per nuovi prodotti.

Pertanto la crescita alfa (in senso macroeconomico) si arresta (o almeno si riduce a qualche settore particolare) e quello che abbiamo chiamato motore primario del capitalismo si spegne.

Ovviamente, un capitalismo senza accrescimento del capitale non può funzionare, come in effetti il moderno capitalismo puramente finanziario, che è appunto un capitalismo senza capitale, non funziona.

Possiamo concludere che la crisi metabolica è una crisi da opulenza, e tanto irreversibile quanto il progresso tecnico.

Il ragionamento ci dovrebbe persuadere a lasciar fare al mercato tutto ciò che esso è in grado di fare, senza interferenze né adulterazioni; ed insieme a stimolare artificialmente – fino al massimo possibile – tutte le risorse che il mercato lascia inutilizzate.

Su quest’ultimo enunciato c’è accordo pressoché universale, ed infatti i nostri mercati sono diventati tutti sin troppo artificiali; ma non c’è accordo sul mezzo da utilizzare, che non può essere un debito pubblico o privato indefinitamente crescente: la ragione, anzi la scienza, spinge in tutt’altra direzione.

Ingannare gli uomini è facilissimo, ingannare le cose difficilissimo anzi, quasi sempre, impossibile.

Però, ad onta delle apparenze, noi non viviamo in una Società tecnologico-scientifica, ma in una Società visceralmente e violentemente religiosa.

Pertanto tutti i ragionamenti qui esposti stenteranno ad essere accolti, tanto più se in essi non vengono trovati difetti: se qualcosa li promuoverà, sarà soprattutto la forza maggiore, cui nessuno può sottrarsi.

 

 

PARTE II - COME SUPERARE LA CRISI METABOLICA

La soluzione che sarà delineata nel seguito è fondamentalmente semplice, ma per essere applicata nella realtà concreta, con un grado di rendimento non troppo lontano dal massimo teorico, richiede l’adozione massiccia di tecnologie moderne, e molta (forse moltissima) digitalizzazione forzata.

In cambio sarà possibile premiare ciascuna impresa, man mano che essa raggiunge i necessari livelli di ammodernamento, con una considerevolissima riduzione del carico fiscale monetario; ma, come è sempre stato, occorre prima lavorare e poi raccogliere i frutti.

Questa sezione, dedicata alla ricerca delle soluzioni, è così suddivisa:

1)    Principi fondamentali.

2)    Obiettivo.

3)    Il costo marginale.

4)    Effetti microeconomici.

5)    Complicazioni.

6)    Il primo balzo del PIL.

7)    Una moneta sintetica.

8)    Sua destinazione.

9)    Regali di Stato.

10)   Copertura del deficit.

11)   Sistema pensionistico.

12)   Welfare.

13)   I disoccupati.

14)   L’armonizzazione domanda-offerta.

15)   Le tentazioni di assistenzialismo.

16)   Il secondo balzo del PIL.

PRINCIPI FONDAMENTALI

I principi che sono alla base di questa proposta di riforma sono tre:

1)    Il Bilancio dello Stato deve essere sempre in pareggio, o persino in leggerissimo avanzo, così che non si possano compiere per nessuna ragione operazioni in deficit né accendere nuovo debito pubblico.

2)    L’economia deve continuare ad essere un’economia di mercato, o meglio deve tornare ad esserlo, perché nell’attuale assetto non lo è affatto.

3)    È necessario lasciare che il mercato, in piena libertà, faccia tutto ciò che può e vuole fare; ma le risorse che esso non vorrà o non potrà utilizzare dovranno essere poste in moto comunque.

OBIETTIVO

L’obiettivo è suscitare la più elevata crescita beta possibile, dopo la quale potrebbe – o meglio deve – sorgere qualche forma massiccia di crescita alfa, sulle cui condizioni di innesco non appare opportuno discutere in questo documento, perché saremmo costretti ad andare troppo lontano.

L’operazione qui suggerita raggiungerebbe pienamente il suo scopo anche senza indurre alcuna crescita alfa e pertanto può essere esposta e studiata indipendentemente: non è necessario fare alcun affidamento su un’ipotetica crescita successiva, dalla quale faremmo dipendere tutto.

E allora si evitano molto accuratamente le promesse messianiche, quali le sentiamo ogni giorno, sulle magiche virtù dei futuri investimenti.

Il lettore rammenterà certamente che la condizione fondamentale per l’accrescimento del Capitale è la sua compiuta utilizzazione, cosa che d’altronde appare evidente ad ognuno.

Che il Capitale si espanda prima di essere compiutamente utilizzato, cioè che si espanda senza motivazione, è qualcosa che ripugna alla mente umana ed ancor più ripugna allo stesso Capitalismo, che infatti non lo permette.

Per momento noi dobbiamo impegnarci a propiziare la completa utilizzazione del Capitale, e dare l’accento alla crescita presente, non a quella futura: una crescita che si realizza a pieno proprio senza investimenti.

Detta in breve, la presente proposta consiste nell’afferrare, tutta e subito, la ricchezza fisicamente disponibile; e se, per ragioni organizzative o per qualche dato di fatto non governabile, fosse impossibile afferrarla proprio tutta, si dovrebbe comunque poterne conseguire la grandissima maggior parte, come dire l’85% o il 90% o il 95%.

Qui ci si propone di incrementare quasi repentinamente il famoso PIL di una quantità non inferiore al 30% e di conseguire contemporaneamente qualcosa di abbastanza vicino alla piena occupazione: il tutto mediante le risorse che sono disponibili, come si dice, qui e subito.

Siccome la nostra mente umana non si fa mai tanto ottusa come quando l’evidenza si mostra in piena luce davanti ai suoi occhi, è necessario fare appello agli eventuali lettori perché non abbiano a disdegno l’uovo di Colombo (che sarebbe più appropriato chiamare di Brunelleschi) senza prima sottoporlo ad esame ed a critica.

Anche le difficoltà tecniche e tecnologiche di conseguire gli obiettivi proposti saranno esposte nel testo che segue, ma non troppo dettagliatamente.

IL COSTO MARGINALE

Il costo marginale dà luogo facilmente a ragionamenti complessi, ma qui si vuole esporre soltanto la parte sostanziale del concetto, quanto è necessario per la comprensione di ciò che specificamente ci interessa.

Innanzitutto dobbiamo cercare di capire che cosa accadrebbe se, in via d’ipotesi, costringessimo un’impresa beta ad aumentare la sua produzione fino alla completa saturazione dei propri impianti e comprassimo da essa la produzione aggiuntiva all’esatto importo dei nuovi costi che abbiamo indotti – senza guadagno o perdita alcuna da parte dell’impresa stessa.

Il lettore deve concentrare l’attenzione su questo punto, che è la chiave di tutta l’argomentazione: questo è il colpo di spada che spezza il circolo vizioso denaro-produzione-denaro; una volta spezzata quella catena, il Sistema si apre a vie di sviluppo nuove e potentissime, delle quali si dà qui soltanto il primissimo intravedere.

Appunto i costi aggiuntivi suscitati dalla nuova produzione sono definiti come suoi costi marginali: ma nel nostro contesto, come vedremo, essi sono particolarmente contenuti.

Operazioni come queste non possono essere compiute da altri soggetti che dagli Stati, sia perché sono i soli a possedere la necessaria sovranità, sia perché sono i soli ad avere interesse ad attuarle – per il vantaggio dei loro Popoli e per evitare la deflagrazione delle comunità che essi rappresentano.

Quindi accadrà sovente che nel discorso successivo ci si immedesimerà con lo Stato che ha posto in atto l’operazione, e condurremo il ragionamento dal punto di vista di questo.

Naturalmente noi (Stato) non useremmo le immense quantità di merci così acquistate per far concorrenza all’impresa stessa, e nemmeno alle altre imprese, né in Patria né all’Estero: altrimenti non si tratterebbe che di un’ipotesi priva di senso.

Ci muoveremmo, come si vedrà, nella vastissima ed inesplorata area dell’invendibile dalla quale, se ne saremo capaci, dobbiamo conseguire i nostri scopi economici e politici.

Certamente alle imprese non piace vendere alcunché al costo, e tantomeno al costo marginale, e proprio per questo si è fatto uso del verbo costringere.

Ma se una tale costrizione si potesse mettere in pratica, sarebbe come una di quelle medicine che i malati considerano eccessivamente amare, e rifiutano: ma è adatta a curare dai fondamenti una malattia logorante ed a lungo andare mortale.

La nuova produzione che abbiamo suscitata concretizza una domanda formidabile, quale il mercato non esprimerebbe in nessun modo ed in nessuna circostanza con i suoi meccanismi spontanei.

Per esprimere simili risultati il mercato dovrebbe sottostare inevitabilmente a qualche forma di costrizione, quale soprattutto è stata in passato la costrizione bellica, mediata spesso anch’essa da masse smisurate di debito pubblico.

La nostra scelta ci permette invece di simulare una guerra benefica senza controindicazioni (se non psicologiche) e senza debito pubblico.

EFFETTI MICROECONOMICI

In particolare vogliamo cominciare col conoscere con una ragionevole precisione ma senza pretese di esattezza di quanto aumenterebbero i costi della nostra impresa.

Le risorse aggiuntive che l’impresa deve mettere in campo sono le seguenti:

1)    L’uso degli impianti esistenti.

2)    La manodopera necessaria.

3)    Quelle che si suole chiamare materie prime (soggettive) ossia i materiali da lavorare, l’energia e simili.

Gli impianti, poiché li usiamo soltanto in quanto inutilizzati, possono denunciare un piccolo logorio aggiuntivo, ma sotto il profilo contabile il loro ordinario ammortamento è già conteggiato nel prezzo delle merci vendute.

Di conseguenza la prima voce può essere valutata a zero.

Ugualmente se in quell’impresa la manodopera in organico è utilizzata soltanto parzialmente, tutto il maggior lavoro espresso dal pieno utilizzo è già compreso nei costi preesistenti.

Se invece si richiede lavoro aggiuntivo, con ampliamento dell’organico o fenomeni assimilabili, questo è un incremento effettivo dei costi.

Ovviamente la nostra ipotesi non è fatta per essere applicata ad una singola impresa, ma possiamo supporre di estenderla a tutte le imprese di un opportuno ambito, compresi i fornitori dell’impresa in esame.

Pertanto possiamo supporre di aver già acquistato separatamente, con lo stesso metodo, le risorse delle quali al punto 3), e di poterle fornire direttamente alla nostra impresa, naturalmente a prezzo zero.

Dal ragionamento discende che l’unico costo macroeconomico da sostenere effettivamente è quello relativo al lavoro aggiuntivo, ciò che appare ragionevole e, con buona approssimazione, scientificamente esatto.

Le nostre scelte obbediscono dunque ad un quadro serenamente ricardiano, e dobbiamo aspettarci, per le casse dello Stato, un costo pari al valore (al netto delle imposte) del maggior lavoro che così abbiamo imposto alla collettività.

È necessario osservare che si tratterà di quantità relativamente molto piccole di lavoro, insufficienti a modificare in misura significativa il quadro della disoccupazione: tuttavia si assicurerà una maggiore stabilizzazione dell’occupazione presente.

Soprattutto, ciò che più importa, si conseguirà una gran massa di produzione che senza questa iniziativa non sarebbe stata realizzata.

È una parte cospicua di ciò che chiamiamo produzione inespressa, o ricchezza nascosta o anche ricchezza latente, delle quali forme di ricchezza il nostro opulento Occidente trabocca quasi in ogni piega del suo gran corpo, tanto che non resta che spremerle.

COMPLICAZIONI

Ciò che abbiamo appena delineato sarebbe relativamente semplice, e non troppo difficile da realizzare se l’ambiente fosse lealmente collaborativo e se non nascessero alcune complicazioni, che qui possono essere appena accennate, più per dare l’idea che le difficoltà sono tenute nella debita considerazione che per esporre i dettagli tecnici delle soluzioni.

Il primo problema è quello del bilanciamento del carico tra le imprese, le quali possono trovarsi con avanzi beta percentualmente molto diversi tra loro.

È fondamentale che le imprese che lavorano per il mercato interno non perdano competitività, o almeno ne perdano meno di quanta ne perdano gli importatori, e che le imprese esportatrici abbiano, se possibile, un forte guadagno netto di competitività.

Poi, se come è opportuno si vogliono evitare misure esplicitamente protezionistiche, è necessario formulare la costrizione in maniera che essa gravi nella stessa misura oggettiva sui produttori interni e sugli importatori, e quindi (non potendosi conoscere l’avanzo beta delle imprese situate a monte degli importatori, né disponendo di sovranità nei confronti di queste) occorre usare una metodologia leggermente più complessa di quella indicata sopra, ma di funzionamento più certo e misurabile.

Sul versante opposto, esentare gli importatori da un siffatto servizio è irragionevole.

Inoltre il mondo intero, e segnatamente l’Italia, ospita molti soggetti astuti propensi a raccogliere i benefici ma ancor più a sottrarsi ai propri adempimenti: quindi la formulazione deve essere ineludibile, ed ancor più il controllo sull’effettività dell’applicazione.

Tutto ciò esige una profondissima digitalizzazione, che nei prossimi anni in un Paese sviluppato sarebbe necessaria comunque, e dovrebbe essere portata a compimento comunque.

IL PRIMO BALZO DEL PIL

La massa di prodotti che abbiamo fatto nascere merita un nome: la chiameremo extra-produzione A, abbreviato in XPA; essa (idealmente) giace in un immenso deposito di beni e servizi appartenente allo Stato.

Per il semplice fatto di averla prodotta materialmente, la produzione XPA ha fatto aumentare il PIL, per un valore non molto facile da precisare, che può oscillare da un minimo pari al costo monetario sostenuto dallo Stato ad un massimo pari alla sua valorizzazione ai prezzi di mercato.

Tuttavia, poiché essa è merce non destinata ad essere stoccata ma ad essere consumata interamente nel brevissimo periodo, possiamo ritenere più rispondente alla realtà la valutazione a prezzi di mercato.

Con la produzione di XPA cresce corrispondentemente la produttività degli impianti, la produttività del lavoro, il cosiddetto PIL, il PIL pro-capite.

La merce XPA (composta di una parte preponderante di servizi) è formalmente invendibile, per la sua stessa definizione: se fosse vendibile, almeno in parte, il mercato l’avrebbe prodotta da solo.

È pertanto importantissimo stabilire quale uso deve esserne fatto, perché tale uso evidenzia l’intento politico di chi lo compie e permette di assegnare un valore effettivo alla massa di merci.

Faremo innanzi tutto un’ipotesi, che equivale ad una stima certamente imprecisa, sulla quantità delle merci XPA: assumiamo che esse corrispondano al 15% del PIL, valore che potrebbe essere troppo basso rispetto ai valori effettivi correnti di sfruttamento degli impianti, troppo alto rispetto alla capacità empirica di utilizzo di XPA al livello di organizzazione che è possibile esprimere immediatamente.

In realtà non ci sarà un peso uniforme per tutte le tipologie di merce, né tale uniformità ha rilevanza particolare; quel che più importa è la consumabilità della detta produzione, da parte di coloro cui essa è destinata.

UNA MONETA SINTETICA

Qui il termine “sintetica” è utilizzato nel senso di “prodotta per sintesi” come si dice ad esempio “resina sintetica” o “fibra sintetica”: il prodotto di sintesi è costruito a partire dai componenti, scelti e configurati in maniera che esso assolva a precisi compiti, e sia esente da certi difetti inerenti, invece, a certi prodotti “naturali”.

Le monete sintetiche avranno un ruolo molto grande nel nostro futuro, perché a differenza del denaro ordinario esse possono essere coniate ciascuna con le caratteristiche volute e le proprie regole di scambio, nella quantità tecnicamente necessaria, e quando necessario deconiate, senza dar luogo a fenomeni secondari indesiderati, in particolare l’inflazione e gli abusi.

Le monete sintetiche debbono necessariamente avere forma puramente elettronica, e di conseguenza – a differenza del denaro ordinario – esse circolano ciascuna in un proprio ambito a tenuta stagna, dal quale non possono sfuggire per ragione alcuna.

Non si debbono confondere le monete sintetiche con quelle che oggi si suole denominare “monete complementari”, perché le differenze sono qualitative.

Le monete sintetiche qui accennate hanno corso legale obbligatorio, hanno lo stesso valore nominale e lo stesso potere d’acquisto della moneta ordinaria cui fanno riferimento e non servono ad attuare baratti: non più, almeno, di quanto lo faccia l’euro o il dollaro.

Qui ci occuperemo di una singola moneta sintetica, quella necessaria per vendere o – a scelta – comprare l’intera produzione XPA.

Dal punto di vista pratico la produzione XPA – beni e servizi – si compra direttamente sul mercato, perché è intimamente mescolata a tutte le altre merci ivi presenti: soltanto i sistemi di conteggio sottostanti decideranno, per ogni operazione, subito dopo la vendita, se il singolo prodotto venduto appartiene o no alla massa XPA.

Il lettore non dovrebbe tributare troppa attenzione a queste questioni, perché sono troppo tecniche e troppo complesse: gli basti sapere che il possessore di moneta sintetica non si può distinguere, nel mercato, dagli altri soggetti (però non può operare per contanti).

Supponiamo pertanto di coniare la massa di moneta sintetica esattamente sufficiente a comprare, al prezzo di mercato, la detta XPA; si tratta di una massa di denaro molto notevole, che in un anno (nell’ipotesi formulata) corrisponde a circa 300 miliardi di €.

Questo è denaro che non è stato preso a prestito, non si deve restituire a nessuno, non è gravato di interessi, non induce deficit, circola soltanto all’interno del Paese per gli scopi per i quali è stato istituito, non si può accumulare, non si può risparmiare a lungo termine, non regola i prezzi, non si può portare all’estero, e non può servire ad altro che ad acquistare – a prezzo di mercato – la produzione XPA.

Esso non viola alcuna delle regole comunitarie o internazionali, sebbene ciò abbia bisogno di essere chiarito ed esplicitato.

Inoltre, ed è fondamentale, esso è un’entrata che si riproduce ogni anno, in misura potenzialmente corrispondente all’intero avanzo beta delle merci consumabili – ed anche oltre, se fosse opportuno o necessario.

Infatti non appena l’intera massa di merci XPA è stata venduta (ossia acquistata dai consumatori) l’intero ammontare della moneta sintetica ritorna in mano allo Stato, il quale può decidere, in base all’andamento del mercato, se deconiarne una parte o coniarne una quantità aggiuntiva.

A questo punto dobbiamo decidere che uso fare di una tale massa di ricchezza: noi disponiamo da una parte della ricchezza reale (idealmente ammassata nei nostri magazzini, fisicamente mescolata alla ricchezza presente nel mercato) e dall’altra di tutto il denaro necessario per comprarla.

Contemporaneamente nel mercato è rimasta l’intera produzione ordinaria, e tutto il denaro disponibile prima del nostro intervento: sono due mondi paralleli, ciascuno dei quali può seguire la propria dinamica senza interferire con l’altro, sebbene essi debbano vivere intimamente mescolati, in modo da sembrare un solo mercato.

Ma l’elettronica è sempre in grado di tener conto in senso assoluto delle risorse, e le mantiene sempre perfettamente distinte.

SUA DESTINAZIONE

Questa è una proposta d’uso del denaro sintetico, ma la sua destinazione – a parte il vincolo logico che esso può servire soltanto a comprare le merci XPA, e quindi non è denaro da investimenti – dovrebbe essere il risultato di scelte politiche: qui si possono soltanto ventilare alcune ipotesi.

In sostanza potremmo:

1)    Regalarne una parte.

2)    Usarne una parte per coprire la porzione di spesa pubblica rimasta scoperta a causa del pareggio di bilancio.

3)    Prendere in carico, gradualmente, l’intera spesa pensionistica.

4)    Usare la parte restante per comprare il lavoro dei disoccupati ed alcune attrezzature.

REGALI DI STATO

Regaleremo una porzione del denaro sintetico a fasce di popolazione che ne abbiano bisogno e (per ragioni oggettive) non possano lavorare per procurarsele: ad esempio i pensionati estremamente deboli, alcune categorie di lavoratori troppo sottopagate (forze dell’ordine, insegnanti), e tutti i lavoratori dipendenti fino a certi limiti di reddito.

Per quest’ultima classe di persone, la somma sintetica sostituirebbe i ben noti 80 € e sarebbe portata a 250 € mensili: ciò costituirebbe un formidabile incentivo per l’emersione del lavoro nero.

Ma sarà inevitabile porre condizioni molto importanti per chi accetta i regali, le quali condizioni servono essenzialmente a favorire il mercato ordinario e quindi il sistema delle imprese.

Ad esempio, ma non è tutto, chi accetta il regalo dovrà accettare il blocco dei suoi conti correnti, dai quali non potrà più prelevare contanti (salvo restituire tutto quanto ha percepito in moneta sintetica, da sempre): dunque dovrà utilizzare per tutti i pagamenti le carte di credito ordinarie (le quali contengono contemporaneamente la moneta ordinaria e quella sintetica) o i bonifici.

Inoltre, ogni mese, i 250 € saranno accreditati soltanto se gli stipendi dei mesi precedenti sono stati spesi per intero.

Ciò può apparire come un disincentivo al risparmio, ed è; ma l’esaltazione del risparmio è un residuo d’altri tempi, quando c’era un’alta domanda di capitale alfa e si fantasticava che il risparmio fosse necessariamente investimento: ripetere a memoria formule obsolete non porta alcun beneficio, e fa commettere molti errori.

In ogni caso, è assolutamente necessario rimpiazzare, sul mercato, la domanda che cade per l’assenza di deficit.

Un altro regalo di somma importanza lo faremo con il mandare in pensione tutti, con un minimo di gradualità, a partire dai 60 anni per le donne e dai 65 e forse meno per gli uomini, come una volta, ciò che darà un certo spazio ai giovani.

La conseguenza immediata dell’aver portato grandi risorse fisiche – e quindi finanziarie – nel campo delle pensioni è lo sblocco del mercato del lavoro, che ridimensiona subito i problemi legati alla disoccupazione giovanile.

Fino a quando questi nuovi pensionati non matureranno il diritto alla pensione secondo la legislazione vigente, essi saranno pagati per intero in moneta sintetica; ciò non ha alcuna rilevanza pratica perché i titolari (purché non siano interessati ai proibitissimi prelievi per contanti cui hanno dovuto espressamente rinunciare all’atto dell’accettazione del regalo) non potrebbero vedere alcuna differenza.

Ma come già accennato il fondamentale discorso sull’indistinguibilità delle due monete non può essere svolto qui.

COPERTURA DEL DEFICIT

Sarà necessario o ridurre la spesa pubblica di una somma pari al deficit annuo, o compensare in qualche modo il corrispondente ammontare attraverso la moneta sintetica.

Nell’uno e nell’altro caso, poiché la realtà contabile non si può ingannare, verrebbe a mancare alle imprese il denaro (reale) corrispondente.

Occorrerà far sì che esso arrivi loro da altra strada non patologica, con metodi che (pur sfiorati sopra) non possono essere esposti con sufficiente chiarezza in queste righe.

SISTEMA PENSIONISTICO

Una delle strade maestre per ridimensionare la spesa pubblica consiste nel porre l’intero sistema pensionistico a carico della produzione XPA.

I vantaggi sono evidenti:

1)  I lavoratori avrebbero subito un reddito spendibile pari al contributo non versato, beneficio che varrebbe per qualsiasi fascia di reddito ed andrebbe a sommarsi, quando sono presenti, ai 250 € di “regalo”.

2)  Le imprese sarebbero sollevate dai pesantissimi oneri contributivi e la loro competitività verso l’estero si farebbe molto più forte; la competitività interna delle imprese rimarrebbe nominalmente invariata, ma quelle che non evadono ne trarrebbero maggiore vantaggio.

Inoltre emergerebbe la maggior parte del lavoro nero, per il quale l’evasione degli oneri contributivi costituisce la principale tentazione.

Le pensioni non sarebbero più aleatorie e pericolanti, ma sarebbero ragionevolmente sicure.

Il solo svantaggio è che il mercato interno si fa più piccolo, e molte imprese lo vedrebbero restringersi effettivamente: per qualcuna il risparmio sugli oneri contributivi sarà prevalente rispetto al restringimento del mercato, per qualche altra avverrà il contrario.

L’avanzo beta crescerebbe corrispondentemente.

Occorrerà vigilare che il denaro risparmiato dalle imprese non diventi carsico; ma attualmente, a differenza degli accorgimenti più o meno velleitari ventilati negli anni ’30, disponiamo della grande elettronica.

L’INPS resterebbe tal quale, ma opererebbe quasi completamente con la moneta sintetica, eccetto che per il suo proprio sostentamento: le sue entrate sarebbero sempre esattamente uguali agli oneri.

Le apprensioni sulle pensioni future dei nostri giovani si dileguerebbero.

Non deve stupire che moltissimi problemi apparentemente insolubili si possano abbordare con molta facilità e sembrino risolversi da soli.

Non è che la moneta sintetica abbia poteri particolari: ciò è la diretta conseguenza dell’aver messo in movimento potenti apparati, produttivi di merci necessarie al funzionamento della collettività, che il mercato avrebbe obbligato a restare fermi.

Il moto di tali apparati si traduce in immense quantità di merci, le quali risolvono ogni problema: la moneta sintetica si limita a misurarle e rappresentarle.

WELFARE

Il resto del denaro sintetico si dovrà utilizzare per il cosiddetto welfare, che in lingua italiana (in mancanza di un auspicabile termine apposito) possiamo chiamare Stato sociale.

Molti servizi assolutamente essenziali – scuola, sanità, giustizia, polizia, assistenze di ogni tipo – e molte produzioni (tipicamente i lavori pubblici) non possono essere gestiti attraverso il mercato, in quanto i soggetti che ne hanno maggior bisogno sono proprio coloro che non possono pagarli: inoltre la maggior parte non può essere impostata su base volontaria.

Ciò è reso abbastanza evidente dallo stato nel quale essi si trovano laddove una qualche posizione di principio impone di esplicarli ad ogni costo attraverso il mercato.

Il mondo moderno ha bisogno, in misura crescente, di servizi di questo tipo, aperti a tutti, i quali debbono essere infinitamente maggiori in quantità e qualità rispetto alla situazione attuale.

Affermazione che può essere corroborata da quattro considerazioni:

1)    Se lo scopo della Società (e dello Stato non feudale) deve essere la felicità di tutti i cittadini, e non soltanto di una minima parte di loro, la quantità e la qualità di tali servizi possono essere considerate come una misura dell’efficienza della Società e, per certi versi, del suo grado di civilizzazione.

2)    In questo campo ci sono infinite possibilità di accrescimento del PIL e di un grandissimo fervore di attività, quali non si riesce a immaginare nel mercato beta circostante, nemmeno se avesse a disposizione tutto il denaro.

3)    La strada della soppressione del welfare è una falsa pista. Al contrario è prevedibile un futuro contrassegnato da una estrema espansione dello Stato sociale: necessariamente, se il Capitale è stato accumulato, si dovrà utilizzarlo.

4)    Nel welfare debbono essere incluse, perché non può essere altrimenti, le attività esplicite di protezione e di bonifica dell’ambiente in senso lato.

È fuori di dubbio che finanziare per intero un welfare di altissimo livello per via fiscale sia piuttosto proibitivo in un mondo globalizzato: la pressione diventerebbe troppo elevata e la competitività internazionale del Paese ne resterebbe vulnerata.

Vice versa, sacrificare il welfare alla competitività corrisponde, alla lettera, a vendere sul mercato internazionale le sofferenze ed i disagi della propria cittadinanza: cosa che molte volte è inevitabile, molte altre evitabile.

Le due istanze si possono conciliare agevolmente attraverso la moneta sintetica: sarebbe possibile fare scelte anche costosissime di welfare il cui pagamento andrebbe a carico della produzione latente, ossia di impianti produttivi che altrimenti il mercato lascerebbe fermi ed inutilizzati.

I servizi dello Stato sociale richiedono soprattutto manodopera; ma anche molte merci (macchine, servizi, beni materiali) che si debbono pensare presenti nella massa XPA.

I DISOCCUPATI

La quantità di moneta sintetica a disposizione permette di assicurare un reddito, a livelli di mercato, all’intera massa dei disoccupati o sottoccupati o inattivi presente in Italia.

L’utilizzo efficace dell’opera di costoro apre altri problemi, di soluzione difficile ma perfettamente possibile: non si deve dimenticare che le sfide delle quali parliamo sono imposte dai tempi, e non si può uscire dall’impasse dovuta alla crisi metabolica se non superandole, perché indietro non si può tornare e le altre strade visibili sono sbarrate.

Il fabbisogno di manodopera, una volta acquisiti i mezzi per retribuirla, sarebbe di per sé smisurato: dappertutto nel Paese c’è una massa di attività trascurate che ha necessità di non essere dimenticata.

Serve personale nelle scuole, nella sanità, nei tribunali, nelle forze dell’ordine e così via; serve mettere a posto infinite infrastrutture sulle quali imperversa da vari decenni la crisi, quali strade, acquedotti, patrimonio immobiliare pubblico e privato, protezione del territorio…

Insomma, un elenco ragionevolmente completo sarebbe forse tedioso: i bisogni sono così tanti, che forse i disoccupati non basterebbero.

Tuttavia il metodo qui delineato non è in alcun modo adatto ad accogliere immigrati, perché l’impossibilità di prelevare contanti, l’obbligo di spendere per intero e quasi subito lo stipendio nel territorio e soprattutto la moneta sintetica non immediatamente utilizzabile all’Estero rendono poco appetibile questo tipo di collocamento per chi abbia altrove i suoi interessi fondamentali.

Se l’Europa (o meglio il mondo) vuole prendere coscienza della presenza di masse di diseredati, i rimedi per intervenire direttamente sulle cause – e dunque in loco – ci sono: occorre un solido accordo internazionale, e si debbono evitare le tentazioni di colonialismo (nonché le relative parodie).

Ma questo non è un tema che si possa affrontare qui.

Qui dobbiamo occuparci dei problemi inerenti al collocamento dei disoccupati italiani, che sono sostanzialmente due: armonizzare domanda ed offerta e sfuggire alle facilissime tentazioni di assistenzialismo.

La discussione diventerebbe facilmente tecnica e qui va ridotta ai concetti essenziali e certamente, come è, apparirà incompleta al lettore.

L’ARMONIZZAZIONE DOMANDA-OFFERTA

È evidente che una massa di persone molto eterogenea, la cui composizione possiamo immaginare come casuale, non può avere la medesima distribuzione di competenze prevista dal fabbisogno.

Molto personale specializzato (ad esempio per scuola, sanità, giustizia) potrà abbinarsi facilmente alla richiesta; molto personale non specializzato potrà affrontare agevolmente i lavori che richiedano soprattutto manovalanza, che tuttavia non sono moltissimi.

Saranno necessari molti percorsi di formazione, che dovranno essere alquanto severi, forse molto.

Nessuno dovrà percepire retribuzione alcuna se non dopo aver prodotto qualcosa di misurabile di adeguato valore.

Ci sarà personale specializzato che dovrà accettare lavori non corrispondenti alla propria specializzazione, e mansioni di livello inferiore.

Ma in ogni caso, pur con questi difetti la piena occupazione è sostanzialmente assicurata.

Una corretta amministrazione politica sorveglierà, nel tempo, la dinamica dei fattori in gioco, che non è immutabile e deve essere gestita.

LE TENTAZIONI DI ASSISTENZIALISMO

Un pericolo certissimo è che la facilità e l’abbondanza delle risorse le facciano assegnare in modo improprio, per lavori inutili, oppure non effettivamente espletati oppure con rendimento troppo basso.

Anche qui il rimedio è la digitalizzazione profonda, la quale, opportunamente congegnata permette di misurare, con una buona attendibilità, la produzione effettuata giorno per giorno dalle singole persone, soprattutto se si riesce a creare interessi antagonistici che impediscano le derive.

Inoltre questo genere di attività deve poter essere controllato capillarmente da ciascun cittadino, sia pure senza interferenze invasive: nel campo del lavoro la cosiddetta privacy non deve potersi opporre alle verifiche di efficienza e di legalità.

Un’istituzione molto importante, che qui merita soltanto accennare, potrebbe consistere nel concedere al generico cittadino, con modalità adatte a non generare caos, l’autorità di elevare egli stesso verbali di contravvenzione esecutivi, in qualsiasi ambito, con il mezzo di un’apposita applicazione, sia contro la pubblica amministrazione sia contro le imprese private, non appena si rendano inadempienti (ritardi, abusi, violazioni delle leggi).

IL SECONDO BALZO DEL PIL

L’aver messo in attività un certo numero di milioni di persone produce il secondo tempo dell’operazione iniziata con il costringere il tessuto delle imprese ad una produzione non richiesta dal mercato.

La quale produzione è stata utilizzata, per il tramite di un’apposita moneta sintetica, in parte come mezzo per migliorare il tenore di vita di alcune fasce della popolazione, in parte per sanare il deficit di bilancio, in parte come strumento per acquistare il lavoro a pieno regime dei disoccupati.

Per quanto i calcoli ipotizzati siano puramente indicativi, è ragionevole supporre che il lavoro di costoro produca almeno il doppio di quella che è la loro retribuzione netta, ciò che implica un secondo e più grande balzo del PIL.

Per di più i fenomeni economici, che presi singolarmente sono imprevedibili, appaiono globalmente molto più controllabili grazie all’uso di ammortizzatori sociali che non costano nulla a nessuno e permettono di recuperare (entro i limiti concessi dalla metodologia) la produzione perduta dal mercato.

Anche le imprese, in presenza di un agevole collocamento dei disoccupati, potranno operare con una certa tranquillità le riduzioni di personale che si rendessero oggettivamente necessarie.

Sarà così possibile lasciare che il progresso tecnico si scateni, senza il timore di impatti sociali eccessivamente violenti.

Spetterà alle imprese studiare con serietà scientifica la realtà del mercato, ed indicare (cosa non impossibile, ma non semplicissima) come potranno continuare a conseguire profitti dal mercato interno in assenza del meccanismo suicida del debito pubblico.

 

 

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